
I nuovi dazi di Trump riscriveranno l’industria della bellezza?
Come le decisioni degli Stati Uniti impatteranno sulle catene di approvvigionamento e i processi produttivi dei beauty brand
11 Aprile 2025
Con il ritorno di Donald Trump sulla scena politica americana, il protezionismo commerciale torna al centro dell’agenda economica globale e fa tremare non sono soltanto le grandi industrie tecnologiche, automobilistiche o la moda. Le nuove misure annunciate nel "Liberation Day", che se confermate prevedono l’applicazione di dazi fino al 25% su un’ampia gamma di prodotti importati da Corea del Sud, Unione Europea e Regno Unito, minacciano di colpire anche un settore finora relativamente immune alle guerre commerciali: l’industria della bellezza. Dietro il linguaggio aggressivo che accompagna queste politiche, si nasconde una strategia ritenuta da molti miopi che rischia di compromettere uno dei comparti più dinamici e globalizzati dell’economia contemporanea, ridisegnando le dinamiche di prezzo, produzione e consumo che hanno sostenuto il boom beauty degli ultimi dieci anni. Con un valore di mercato globale stimato in oltre 600 miliardi di dollari e una crescita annua intorno al 5%, il beauty si fonda su supply chain internazionali complesse, innovazione transnazionale e consumatori abituati a una varietà di prodotti provenienti da tutto il mondo. Colpire la bellezza con tariffe doganali elevate non solo avrà ripercussioni sui prezzi al consumo e sulla competitività delle aziende, ma rivelerà anche le contraddizioni di una politica economica che si proclama a favore del Made in USA mentre danneggia filiere produttive e creative ormai profondamente intrecciate a livello globale. In questo scenario, marchi storici e start-up emergenti si trovano a dover rivedere strategie logistiche, investimenti e politiche di prezzo, mentre il consumatore finale, americano ed europeo, si prepara a pagare il prezzo della visione economica trumpiana.
Il beauty: un settore fragile sotto l’apparenza scintillante
La bellezza è spesso percepita come un settore a prova di crisi. Il concetto di lipstick effect, teorizzato già negli anni Trenta, racconta come i consumatori, anche in tempi difficili, non rinuncino ai piccoli lussi quotidiani, concedendosi un rossetto piuttosto di un investimento più impegnativo. Tuttavia, i dazi colpiscono il settore in un punto nevralgico: la supply chain. Secondo un’analisi di Business of Fashion i prodotti coreani, dalle maschere in tessuto ai sieri altamente tecnologici, sono tra i più esposti. La K-beauty, che ha ridefinito le regole dello skincare mondiale grazie a innovazione continua e prezzi accessibili arrivando a superando la Francia come principale fonte di importazione di prodotti di bellezza non profumati, rischia di vedere compromessa la propria competitività. I dazi ipotizzati potrebbero aumentare i costi di importazione fino al 25%, una soglia che rischia di alterare completamente il rapporto qualità-prezzo su cui questo segmento ha costruito la propria espansione globale. Non si tratta solo di skincare. Il peso specifico della Corea del Sud si estende anche a packaging innovativi, formulazioni biotech e trendsetter capaci di influenzare l’intero mercato. Un aumento dei costi lungo questa catena impatterebbe su tutta l’industria, minacciando l’accessibilità che ha reso globale il fenomeno beauty asiatico e marchi made in Korea come Rare Beauty, Glow Recipe, 111Skin e Olive & June.
"Non toccate il beauty"
L’industria della bellezza, spesso percepita come frivola rispetto ad altri settori strategici, si sta rivelando uno dei comparti più vulnerabili alle nuove ondate protezionistiche volute da Trump. Come riportato da Fortune Italia, i principali gruppi cosmetici europei, tra cui L’Oréal, LVMH, Coty e Shiseido, si sono rivolti alla Commissione Europea per chiedere che il beauty venga escluso dall’eventuale lista di settori colpiti da eventuali misure di ritorsione commerciale contro gli Stati Uniti. Un portavoce dell’associazione europea dei cosmetici ha dichiarato: "Non possiamo permetterci che un settore così strategico diventi ostaggio di guerre commerciali". Il motivo è semplice: l’Europa non solo è leader mondiale nell’export di cosmetici (con una quota di mercato globale vicina al 47%), ma è anche il cuore pulsante dell’innovazione nel settore. Dalla profumeria artistica francese ai trattamenti skincare svizzeri, ogni segmento del beauty europeo rischierebbe di subire un danno strutturale. Trump, con la sua politica di dazi indiscriminati, non solo sembra ignorare l’interdipendenza che lega oggi produzione, innovazione e consumo, ma mette in pericolo le aziende medie e piccole, che oggi competono a livello globale grazie a qualità, artigianalità e heritage, ma non hanno la forza finanziaria per assorbire o bypassare le barriere commerciali. Inoltre, molte delle aziende europee che esportano negli USA, come ricordano gli stessi colossi del beauty, non solo impiegano migliaia di lavoratori americani, ma investono regolarmente in ricerca, marketing e distribuzione sul suolo statunitense. Penalizzarle con nuove tariffe significa danneggiare anche l’occupazione interna, oltre che aumentare i costi per i consumatori americani.
Il consumatore pagherà il conto dei dazi di Donald Trump
Se le nuove tariffe doganali entreranno in vigore, a farne le spese principali sarà il consumatore finale. I dazi non si limiterebbero a colpire le aziende produttrici, soprattutto i marchi cosiddetti masstige, quelli che si collocano tra il mass market e il premium, ma verranno inevitabilmente trasferiti sui prezzi al dettaglio. In pratica, acquistare una crema idratante, un rossetto o un profumo potrebbe costare fino al 25% in più negli Stati Uniti. Secondo le stime raccolte da Glossy, alcuni brand potrebbero cercare di assorbire una parte degli aumenti, riducendo i propri margini di profitto, ma la maggioranza delle aziende, soprattutto le più piccole, non avrà altra scelta se non quella di aumentare i listini. Il beauty è un settore ad alta elasticità di prezzo: quando i costi salgono, i consumatori tendono a cambiare abitudini, scegliendo alternative più economiche o rinunciando del tutto ad alcuni acquisti. Questo comportamento, già osservato durante precedenti cicli inflazionistici, rischia di penalizzare soprattutto i marchi di fascia medio-alta, in favore di prodotti mass market o private label. Inoltre, come sottolineato da Cosmetics Business, i dazi non colpiranno solo i prodotti finiti. Anche ingredienti chiave, come attivi dermatologici, estratti botanici e materiali per il packaging, spesso importati da Corea del Sud e Unione Europea, diventeranno più costosi, aumentando ulteriormente la pressione su tutta la catena del valore. Di fronte a questa situazione, il tentativo dell’amministrazione Trump di "riportare la produzione a casa" rischia di tradursi in un risultato opposto: prezzi più alti, scelta ridotta e un rallentamento generale del mercato beauty, uno dei pochi settori che negli ultimi anni ha mostrato una crescita costante anche in tempi di crisi.
Beauty made in resilience: come il settore si prepara a resistere
Di fronte all’incertezza imposta dai nuovi dazi americani, l’industria della bellezza non resta a guardare. Se il protezionismo di Trump rischia di danneggiare supply chain consolidate e aumentare i costi, molti marchi stanno già elaborando strategie per ridurre la dipendenza da filiere internazionali esposte alle tensioni geopolitiche. Tra le opzioni più discusse emerge il reshoring, ovvero il ritorno della produzione in patria. Alcuni grandi gruppi stanno valutando di spostare parte della manifattura negli Stati Uniti o in Europa per evitare dazi futuri e accorciare la catena logistica. Tuttavia, il reshoring è una soluzione complessa e costosa, accessibile solo alle aziende con capitali sufficienti per riorganizzare i processi produttivi senza compromettere qualità e competitività. Per i brand più piccoli, la re-localizzazione si traduce spesso in strategie più agili: diversificazione dei fornitori, investimenti in produzioni regionali e accordi commerciali alternativi con Paesi non soggetti a tariffe. Una risposta pragmatica a una politica commerciale che, nel tentativo di proteggere l’industria americana, finisce per penalizzare la flessibilità di tutto il settore. La vera parola chiave, oggi, è resilienza. Come osserva Glossy, i marchi più lungimiranti stanno trasformando l’emergenza in un’opportunità per ripensare modelli produttivi e distributivi. In un contesto globale sempre più frammentato, sopravviverà chi saprà trasformare la crisi in evoluzione, e chi avrà il coraggio di ripensare il proprio posizionamento senza perdere l'anima internazionale che ha fatto grande l’industria del beauty.