Ascesa e declino di American Apparel
Un fenomeno culturale tra potenzialità e controversie
09 Novembre 2020
Ad oggi American Apparel si presenta come il brand go-to per acquistare leisurewear e abbigliamento cozy, categorie di tendenza in questo particolare momento storico. “Un rivenditore online di basics senza fronzoli e capi must-have per tutti, prodotto globalmente, in modo etico” si descrive oggi sul sito web dopo il rebranding del 2016, ma il suo passato non si può dimenticare. Nel corso degli anni 2000, si è imposto come fenomeno culturale che ha plasmato menti e corpi di un'intera generazione, grazie alla sua semplice estetica hipster promossa con strategie di marketing provocatorie. La storia del fondatore Dov Charney, la nascita, l’ascesa e la caduta del brand sono documentate in “Big Rad Wolf” prodotto dal servizio streaming Quibi, e disponibile ora sulla piattaforma. La docuserie racconta la storia del marchio, dal punto di vista di ex collaboratori, giornalisti, amici del fondatore, tutti soggetti che hanno vissuto le vicende in prima persona.
Il brand e i suoi "essentials"
La forza di American Apparel è stata quella di aver anticipato quello che oggi è parte fondamentale del guardaroba di tutti i giorni, costruendo la sua offerta di base sui cosiddetti essentials. Ciò che ora definiamo parte di uno stile minimal e rilassato, composto da pezzi indispensabili, in contrasto con il caos e il sovraffollamento che governano il settore moda, era per American Apparel la vera forza commerciale.
Nei negozi sparsi un tempo per tutte le vie delle principali metropoli, l’estetica hipster-basic si faceva spazio con nonchalance nei cuori dei teenager, in contrasto con i look overdressed dei primi anni 2000. L'offerta proponeva ciclicamente sempre gli stessi prodotti, declinati in diversi colori. Ancora oggi, sul sito sono disponibili tutte le categorie prodotto, con particolare attenzione ai basics: crop-top, body, leggings, tracksuit, t-shirt, che sono diventate le fondamenta di American Apparel. Tessuti sintetici dalla lavorazione più complessa come pelle, spandex e lamè completano l’offerta. Ma è come è fatto il capo e chi lo indossa a fare la differenza. Oggi come ieri il brand usa “gente vera” per promuovere i suoi prodotti: sul profilo Instagram da 1.6M di followers le immagini non sono costruite o elaborate, modelli, clienti e followers sono protagonisti delle campagne.
Ascesa e declino (e ripresa)
Il brand nasce all’inizio degli anni ‘80 a Los Angeles, dove il fondatore, allora studente, decide di intraprendere un business partendo da classiche t-shirt con la bandiera americana rendendole slim-fit. American Apparel è partito con un modello di business verticalmente integrato, capace di produrre capi di buona qualità a base di cotone biologico 100% in fabbriche sparse per il territorio americano, guadagnandosi l’etichetta di qualità Made in America. Si rivela anni luce avanti rispetto ad altre realtà competitor anche dal punto di vista dei diritti dei lavoratori, grazie alla sua scelta etica Sweatshop-free, termine coniato per definire la compensazione equa e senza coercizione per chi fabbrica i loro prodotti. Il successo arriva poi grazie alle campagne provocatorie e controverse: dal 2004 il brand sbarca in Europa, aprendo in totale 260 punti vendita in 19 nazioni ed i profitti salgono vertiginosamente: $250M del 2003, $280M nel 2006 fino al 2009, in cui l’approccio acquisisce un altro volto e anche le quotazioni del brand ne risentono, fino alla prima bancarotta dichiarata nel 2010, stesso anno in cui si è scatenata una rivolta con feriti durante un sample sale. Dopo diversi anni di lotte legali il fondatore Dov Charney è stato rimosso dall’incarico per lasciare spazio alla executive Paula Schneider. Nel gennaio 2017, la proprietà intellettuale di American Apparel è stata acquistata da Gildan Activewear, e si è tramutata in una realtà strettamente legata all’e-commerce dedicata al rispetto dell’etica e della sostenibilità. Nel gennaio 2018, la società aveva un consiglio di amministrazione composto interamente da donne.
Le controversie
American Apparel è stato inizialmente celebrato per la sua pubblicità provocatoria e il messaggio di cambiamento sociale. Le campagne pubblicitarie esplicite, voyeuristiche e provocatorie - tanto da essere più volte bannati dal British Advertising Standards Authority - adottavano uno stile amatoriale che ha preceduto il trend gli home-set resi necessari dalla crisi Covid-19, accompagnati da slogan ricchi di doppi sensi, ovviamente in Helvetica.
Ragazze “vere” scovate in street casting apparivano seminude su set che evocavano momenti privati catturati da una polaroid. Ogni teenager ai tempi ha acquistato i capi del marchio per sentirsi desiderabile come loro sui billboard, proprio perché l’aspirazione creata dal brand non era poi così irraggiungibile: quella ragazza così cool, poteva essere chiunque. Per mantenere questa percezione, tutte le potenziali dipendenti erano obbligate a includere fotografie da shooting nei loro CV, in seguito controllati e approvati da Charney in persona, e talvolta era egli stesso a realizzare gli scatti alle modelle.
L'ambiente tossico che Charney aveva creato è anche il motivo principale del declino del brand. Il controverso approccio di marketing da lui promosso e le accuse di molestie a suo carico hanno causato un forte danno all’immagine del brand, ma hanno anche cancellato definitivamente ciò che di buono era stato fatto in precedenza nei confronti dei dipendenti.
Il nuovo direttore marketing Sabrina Weber dice: "Quando guardo le foto d'archivio, rabbrividisco. Restiamo sexy, perché non c'è niente di male nell'essere sexy - è solo il modo in cui si crea il sexy che conta”. Ma che ne è stato di Dov Charney? Ebbene sì, è ancora attivo e ripropone il suo sogno americano con il brand Los Angeles Apparel.