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Dietro le quinte del sogno americano nella docu-serie Netflix 'Cheerleader'

6 episodi che raccontano gli atleti del Navarro College

Dietro le quinte del sogno americano nella docu-serie Netflix 'Cheerleader' 6 episodi che raccontano gli atleti del Navarro College

Uno dei nuovi “Titoli del momento” di Netflix ha catturato la mia attenzione in una di quelle classiche domeniche invernali di gennaio, che non sembrano contemplare nessuna alternativa possibile alla combo divano+copertina. Sono bastati il titolo a caratteri cubitali - Cheerleader- due pon pon e 5 secondi di trailer per farmi premere Play. 

L’ultima recentissima docu-serie di Netflix è ambientata nella minuscola cittadina texana di Corsicana che vanta ben 24.000 abitanti, di cui circa 9.000 sono studenti del Navarro College. L’istituto è un public community college, insomma uno di quelli che in America ti prepara a svolgere lavori di tipo tecnico manuale e per loro stessa ammissione ti dà una educazione “lower-level”. Ma tutto questo ad alcuni studenti in particolare non importa perché è lì che c’è il miglior programma di cheerleading della nazione, che si è conquistato ben 14 titoli nazionali NCA, i più importanti per la categoria e un documentario di Netflix a loro dedicato, per l’appunto. Atleti provenienti da ogni stato degli USA e perfino dal Canada scelgono una cittadina di cui fino a poco tempo prima ignoravano l’esistenza, pur di entrare a far parte della squadra di cheerleading del Navarro College.

A questo punto una precisazione è d’obbligo, tanto più perché stiamo parlando di qualcosa che in Italia e più in generale in Europa, nemmeno esiste. Dimenticatevi balletti e urletti fatti da belle ragazze a bordo campo, mentre omoni giganteschi si riposano a metà partita: qui si fa sul serio e in effetti le ragazze indossano succinte gonnelline, fiocchi, diversi strati di autoabbronzante e un make up piuttosto evidente, ma solo quando devono competere. Tutto il resto del tempo sono a stento riconoscibili, sotto strati di sudore e salti di qua e di là. Mi azzarderei a dire che il cheerleading si è evoluto di pari passo con la figura della donna e da attività di contorno si è guadagnato il titolo di vero e proprio sport competitivo agonistico, seppur ovviamente portandosi dietro ancora alcuni pregiudizi.

 

Un po' ginnastica artistica, un po' rock acrobatico, un po' circo, questo sport - perché di questo si tratta a tutti gli effetti - ha il più alto tasso al mondo di incidenti gravi e mortali per le atlete. Attenzione, questo non vuol dire che la squadra sia formata unicamente da ragazze: per fare tutte quelle acrobazie pazzesche servono anche dei ragazzi (tutti fisicati e muscolosi) che le lancino per aria e, possibilmente, le acchiappino prima che si schiantino al suolo. Insomma nelle riprese che si tratti di uomini o donne si vedono cose davvero incredibili, dei fisici perfetti, che spesso vengono ammaccati, rotti e maltrattati da ore e ore di allenamento (i momenti in cui si vedono i ragazzi studiare saranno proprio due o tre, una rappresentazione molto veritiera della quotidianità probabilmente).


La bianchissima e cristianissima allenatrice Monica Aldama, colei per la quale centinaia di ragazzi si spostano per il paese, in una delle tante interviste frontali e in solitaria che le vengono fatte, afferma che per proteggere i suoi ragazzi, la maggior parte dei quali gay, non ha avuto paura di confrontare il pastore della sua parrocchia e dichiara apertamente di non condividere le idee della Chiesa sull’omosessualità. Monica è una figura potente e carismatica che gestisce la squadra come una piccola azienda, forse anche grazie al suo MBA in Economia, e che non accetta altro che la perfezione. Tutti avremmo bisogno di una Monica che ci aiuti a gestire le nostre vite. Monica vuole il massimo, sa motivarti, ti tiene in riga, organizza la tua giornata e ti fa performare al meglio, semplicemente perché non puoi fare altrimenti. A Monica non interessa se ti sei svegliato male, se sei stanca, se hai fatto bagordi la sera prima. 

Il suo personaggio si cala perfettamente nella storia, che poi altro non è se non l’incarnazione di quel sogno e di quell’ideale americano del “basta impegnarsi per avere successo, tutto è possibile”. E’ a tratti sconvolgente pensare a come una produzione di questo tipo nel nostro paese sia assolutamente impensabile, non solo per la mancanza della materia prima (in questo caso le cheerleader) ma anche e soprattutto per una totale mancanza di quell’autonarrazione da vincitori a tutti i costi, che tanto ben si adatta invece al popolo americano.
Ovviamente nessuno dei nostri protagonisti ha avuto la pappa pronta, praticamente tutti i ragazzi vengono da famiglie disastrate (qualche esempio: madre in carcere, padre scomparso, bambino bullizzato, adolescenti che abitano da soli in roulotte, padre scomparso, ragazza che fa a botte e uso di droghe)...eppure. Eppure riescono nel loro intento con la mera costanza e forza di volontà. Entrano a far parte della squadra e ---- SPOILER ALERT ---- a conquistare il titolo di campioni nazionali agli NCA anche nel 2019. Tutto il sudore, le lacrime, gli incidenti dei 6 episodi e 336 minuti totali sono in funzione dei 2 minuti e 15 secondi dell’esibizione finale quella che, dopo un colpo di scena che giuro non spoilero, vale al Navarro College la vittoria.

E poi? Cosa succede dopo che hai vinto tutto? Dopo che arriva il momento che hai aspettato tutto l’anno? La cosa ancora più pazzesca è che non c’è futuro in questo sport. Come dice Natalie Adams autrice di Cheerleader! An American icon, dopo il college semplicemente tutti smettono di fare i cheerleader e devono capire cosa fare della loro vita, come riciclarsi, cosa darà loro forma negli anni a venire, ricordando quei momenti come “i più belli della loro vita”. Non si può diventare professionisti e vivere di quello, come avviene invece per la maggior parte dei giocatori di basket o di football a quei livelli. 

Ecco, forse solo l’ultima puntata fa luce sul dietro le quinte del sogno americano, mostrando che purtroppo, forse forse, solo i sogni non bastano, ci vuole anche un piano B. Ma nonostante tutto rimane un’annosa questione perché sia Cheerleader che il mito americano del successo ti fanno chiedere se invece non vale proprio la pena di sacrificare tutto per quel singolo momento di gloria. La vista dalla cima della piramide deve essere bellissima.