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Come Gucci ha sfidato il concetto di genere

Il GUCCIFEST è stata la tappa finale di un percorso che punta ad annullare le differenze tra gender

Come Gucci ha sfidato il concetto di genere Il GUCCIFEST è stata la tappa finale di un percorso che punta ad annullare le differenze tra gender

Dal 16 al 22 novembre si è svolto il GUCCI FEST, il festival di Gucci che ha riassunto in modo esemplare la poetica e la visione del brand. All’interno del festival, tra i progetti artistici di 15 designer emergenti, è stata presentata una mini-serie diretta dal regista Gus Van Sant e dal direttore creativo Alessandro MicheleCon questa mini-serie Michele ha inaugurato una nuova stagione narrativa della moda, come già aveva annunciato con Appunti dal silenzio, una dichiarazione di intenti e di rinuncia alla stagionalità tipica dell'industria della moda. E, per non soccombere al sonno della lingua, ha precisato che avrebbe utilizzato nomi legati alla musica classica (sinfonie, rapsodie, madrigali, notturni, concerti, minuetti e, appunto, ouverture). Un’ouverture è la composizione strumentale che apre un’opera, e che solitamente si esegue a sipario ancora chiuso. Così è nata Ouverture of something that never ended.

La poetica di Alessandro Michele

Qualche settimana fa Andrea Batilla, ex direttore IED, giornalista e scrittore di moda, ha praticamente tenuto una lezione in una diretta su Instagram (che si può rivedere qui nell’IG-TV) sul GUCCIFEST. I sette episodi dell’Ouverture costituiscono la poetica di Alessandro Michele, presentando effettivamente i pilastri su cui poggia Gucci, ma anche lui stesso in quanto persona e brand allo stesso tempo. I cortometraggi sono una danza di lucciole. E anche solo l’utilizzo del termine “lucciole" è una scelta programmatica e assertiva che rimanda, da un lato, all’articolo di Pier Paolo Pasolini e, dall’altro, alle teorie del filosofo Didi-Huberman. Già qui si possono notare i richiami colti e intellettuali, ma, come spiega Batilla, ogni episodio in realtà presenta un’intersezione tra cultura accademica e mondo pop

Per capire come Alessandro Michele riesca a far parlare tra di loro questi due mondi, che tradizionalmente sono sempre stati relegati alla dicotomia cultura alta-bassa, basta guardare l’Episodio 3, At the Post Office. In questo corto troviamo Achille Bonito Oliva, critico d’arte, accademico e saggista, che telefona al cantante Harry Styles per parlare di arte e delle sue declinazioni. Non c’è distinzione; l’arte, in senso lato, è democratica. E l’eclettismo di Alessandro Michele arriva a tutti. Il GUCCIFEST, in quanto prodotto culturale, ha annullato la distanza tra tutti i tipi di sapere, e ha trovato un linguaggio che permette di parlare a chiunque, indipendentemente dalla propria erudizione, secondo un un codice culturale comune. È indubbio che nei corti ci siano delle citazioni veramente alte, realmente comprensibili solo a poche persone. Ma tutti possono coglierne l’estetica. Di seguito alcuni dei riferimenti culturali individuati da Andrea Batilla:

Paul B. Preciado e il concetto di genere in Gucci

Nel primo episodio, At Home, mentre Silvia fa stretching sul parquet, in televisione si sente un discorso di Paul B. Preciado, tra i maggiori esponenti e filosofi contemporanei della teoria queer. Il discorso di Preciado è costellato da termini accademici complessi, ma che possiamo semplificare riassumendo i concetti base. Per comprendere la teoria queer si deve innanzitutto prendere atto che ognuno è formato da almeno tre componenti: il sesso biologico (tradizionalmente determinato dai genitali, primari e secondari), l’orientamento sessuale e l’identità di genere

Preciado parte dal XVI secolo, quando si inizia a delineare la differenza tra sessi secondo un’ottica binaria. Praticamente significa che da quel momento si è inventata l’opposizione biologica-sessuale tra i corpi di donna e uomo, e ci si riferiva a tutti i corpi posti nel mezzo chiamandoli ermafroditi e, solo dopo, intersessuali. Da qui, poi, analizza la differenza tra gli orientamenti sessuali, in particolare tra etero- e omo-. Questa distinzione, secondo Preciado, risale al 1868, e serviva per distinguere i corpi che potevano biologicamente riprodursi e quelli non riproduttivi. Tutta questa premessa serve a spiegare come, in realtà, tutte queste distinzioni siano effettivamente dei costrutti sociali, ovvero, la società nel corso dei secoli si è costruita secondo norme storiche scelte e non naturali. Questo modello binario (cioè che oppone diametralmente uomo/donna, etero/omosessuale e così via) ha sempre escluso le soggettività nel mezzo. La teoria queer, almeno a partire dalla filosofia di Judith Butler, si è interrogata sulle sfumature presenti tra questi due poli. Preciado nota così che i soggetti come le persone demisessuali, genderfluid, non-binary (etc.) sono sempre stati considerati mostri. Ma adesso stiamo vivendo il processo di inversione della logica di oppressione, stiamo vivendo tempi in cui i mostri prendono la parola. 

Negli ultimi anni è cresciuta la sensibilità su questi argomenti, specie tra i Millennial e la Gen-Z, e ovviamente i brand l’hanno notato. Il rainbow-washing consiste in tutte le attività di marketing, o social, indirizzate a presentare una realtà come LGBT+ friendly, allo scopo di aumentarne il consenso del pubblico. Sempre più multinazionali cercano di mostrarsi aperte a queste tematiche, intercettando quello che viene considerato un trend. Ma la fluidità non è una moda, però allo stesso tempo può essere uno dei valori su cui basare il proprio processo creativo, ed è proprio il caso di Alessandro Michele e quindi di Gucci. 

Già nel 2017 Michele aveva detto che avrebbe proposto in un’unica sfilata sia la collezione femminile che quella maschile, perché per lui non aveva senso reiterare le differenze di genere anche a livello stilistico. Nel 2019 aveva prodotto con Irregular Labs The Future is Fluid, diretto da Jade Jackman: Racconta una storia di linee e confini sfocati, una storia che vive nello spazio di mezzo - tra lingue, culture, fusi orari e opposizioni binarie. Una storia raccontata dalle voci della prossima generazione che stanno (ri)definendo il nostro mondo attraverso un prisma di fluidità. E, di nuovo, per la sfilata d’inizio del 2020 Alessandro Michele aveva pubblicato un manifesto contro la mascolinità tossica. O ancora quando ha presentato la sezione genderless presente sul sito, chiamata MX. Insomma, Gucci ha sempre trasmesso il suo sistema valoriale, rompendo i meccanismi patriarcali e le norme binarie, anche attraverso i corpi stessi dei propri modelli/e/u. E anche nella mini-serie del festival si celebra la libertà di essere chi si vuole, dalla Jackie 1961 indossata dall’attore Jeremy O. Harris (ep. 6) al completo finale di Silvia Calderoni. 


L’abito fa il monaco

Negli anni Gucci ha dimostrato che un abito non è mai solo un abito, ma racchiude discorsi personali, sociali, sessuali, politici, etici e, certo, anche estetici. Anche Preciado, in un’intervista presente sul sito del GUCCIFEST, ha detto che storicamente la moda ha contribuito a stabilire le differenze sociali e politiche tra uomini e donne. L’atto stesso di indossare i pantaloni acquista un significato profondo sia per il maschile che, successivamente, per le donne. “La moda è uno spazio dove l’idea di genere e di sessualità sono costantemente negoziati”, e infatti nei film (ma anche fuori) Michele rinegozia le aspettative di genere, usando liberamente l’abbigliamento. 

Il concetto base della mini-serie si può ritrovare proprio in un abito. Nel primo episodio Silvia Calderoni, performer, attrice e autrice, getta un vestito dal balcone. Quel vestito è un abito della collezione F/W 2015, cioè la prima curata da Alessandro Michele per Gucci. È questo l’emblema dell’ouverture, un gesto che rappresenta “l’inizio di qualcosa che non è mai davvero giunto al termine”, e infatti quel vestito non è finito nel 2015, ma è stato inserito nella nuova collezione. Eppure, allo stesso tempo, Preciado commenta questo lancio come se la protagonista lasciasse cadere uno degli ultimi baluardi femminili della moda. Così l’abito fluttua libero nell’aria e verrà recuperato da qualcuno che passa per strada, che lo farà suo - uomo, donna o genderless che sia. 

Preciado alla nascita è stato assegnato al sesso/genere femminile, ed è cresciuto secondo il codice normativo di genere almeno finché, grazie al processo di liberazione femminista radicale, ha iniziato con le iniezioni di testosterone. Si definisce transgender, senza ritenersi però né uomo, né donna, né etero, né omo né bisex. Come sottolinea anche nel discorso nell’ep.1, si ritiene un dissidente del sistema di genere/sesso. Riassunta più che brevemente la sua storia, si può ben comprendere anche un’altra frase pronunciata nell’intervista citata sopra: "Forse è perché sono transgender, ma a me piacciono molto gli uomini che indossano abiti femminili. Credo che siano il simbolo della rivoluzione che stiamo attraversando". Ed è innegabile che lo styling by Gucci di Harry Styles si riferisca proprio a questa teoria.

Gucci comunque non si è schierato solo a favore di questa apertura alla fluidità nel sistema genere/sesso. Il pubblico stesso si sta dirigendo pian piano verso quelle aziende che sono in grado di parlare bene degli argomenti più sensibili (sostenibilità, umanizzazione, self-expression, diversity e inclusione). Ed è un punto di svolta fondamentale, perché prima le aziende di moda non dovevano esporsi e interagire con i propri consumatori su questi temi. Alessandro Michele, e Gucci di conseguenza, è sempre riuscito a schierarsi secondo i suoi valori, in un sistema che è culturalmente considerato pop, ma in cui ha saputo inserire perfino il concetto di biopolitica di Foucault (non senza polemiche ovviamente). Così ha caricato la praticità e la concretezza degli abiti di tutto l’astratto della teoria filosofica contemporanea. 

Guardando i sette episodi del GUCCIFEST, possiamo concordare con lo scrittore americano William Gibson: Il futuro è già qui, è solo distribuito male. Perché, infatti, sembra che l’unico brand ad averlo davvero capito sia Gucci.