C'è un problema con le fiction di Rai 1 e la rappresentazione dei casi di stupro
In poche settimane, tre serie Rai hanno portato in tv un'immagine stereotipata e fuorviante delle vittime di abusi
26 Febbraio 2021
Negli ultimi giorni si sta discutendo molto, soprattutto su Instagram e su Twitter, di tre serie Rai che nel giro di poche settimane hanno stabilito una sorta di trend sulla narrazione di finti e presunti stupri. Si sono susseguite a distanza di qualche giorno, infatti, le puntate di tre serie prodotte e andate in onda su Rai 1 che raccontano di false accuse di stupro e in cui la presunta survivor finisce per rivelarsi per ciò che è davvero, una bugiarda. È successo con Mina Settembre, in cui un personaggio accusava - falsamente - il suo ginecologo. È successo con Lolita Lobosco, criticatissima serie con Luisa Ranieri che sembra sia stata in grado di bilanciare perfettamente stereotipi di genere e stereotipi verso il Sud (la serie è ambientata a Bari). Non solo la protagonista, un vicequestore, viene descritta come portatrice di una femminilità intesa come quinta di reggiseno, tacco 12 e rossetto rosso, ma nella prima puntata andata in onda qualche giorno fa, la presunta vittima di violenza sessuale si rivela invece colpevole di aver inventato tutto pur di vendicarsi di un uomo, il suo amante. È successo nuovamente ieri sera con la serie Che Dio Ci Aiuti 6, in cui è stata ritratta l'ennesima falsa accusa di stupro.
Come scrive su Instagram Carlotta Vagnoli, attivista e survivor da sempre impegnata nel dibattito sulle questioni di genere: "In una società che non crede alle vittime neanche quando hanno l’evidenza dei fatti dalla loro (Genovese anyone?) ed in un momento di emergenza estrema per quanto riguarda la violenza di genere, questa è una leggerezza pericolosa e vergognosa per quello che è il “nostro” servizio pubblico. E vedere questa tendenza così radicata è doppiamente umiliante perché ai vertici Rai piace sciacquarsi spesso la bocca con grandi paroloni in difesa della dignità della donna, condannando la violenza solo per necessità di immagine (ad es: cancellando Friedman)."
Il caso Genovese, la definizione di escort riservata a Melania Trump, il modo in cui è stato raccontato l’episodio di condivisione non consensuale di materiale intimo subìto dalla maestra di Torino, così come di Detto Fatto e della spesa sexy, sono tutti tasselli di un quadro più ampio, quello di una televisione che è diventata incapace non solo di raccontare ma anche solo di ritrarre le donne, oggettificandole, rendendole dei puri oggetti sessuali, o facendo passare messaggi fuorvianti. Non si tratta, ovviamente, di un problema che riguarda solo la Rai, le reti Mediaset ci hanno regalato capolavori femministi come Striscia la Notizia, Ciao Darwin e La Pupa e Il Secchione, mostrando per l'ennesima volta l'enorme divario che esiste tra ciò che vediamo in tv e ciò che leggiamo sui social. Sembra esserci una distanza incolmabile tra la televisione generalista e l'attivismo e le prese di posizione che si vedono online, una distanza che persino Chiara Ferragni ha provato ad accorciare - in cui una nuova generazione di femministe e post femministe sono attentissime a ciò che succede intorno a loro, sempre pronte a raccontare, analizzare e denunciare ciò che vedono. Il rischio bolla è spesso altissimo, così come la difficoltà ad uscire dai propri confini e limiti, ma in un momento come questo, in cui molte questioni di genere vengono dimenticate e tanti diritti fondamentali vengono rimessi in discussione, e in cui i presunti stupri da parte di Genovese vengono ricondotti all'assunzione di droga da parte delle vittime, l'azione e le prese di posizione di questi movimenti diventano fondamentali.
Se a molti queste polemiche potrebbero apparire sterili ed inutili, ciò che raccontano le serie Rai va calato in un contesto ben preciso. Le statistiche Istat riportate dal Sole 24 Ore, e riprese anche da Vagnoli, evidenziano come negli ultimi sette anni siano sempre di meno le vittime che denunciano atti di violenza, mentre le false accuse di stupro sono possibili ma percentualmente irrisorie. Gli stessi numeri di femminicidi registrati dall'inizio dell'anno - più di uno a settimana - testimoniano di un sistema che fa fatica, e spesso fallisce, nel proteggere donne che denunciano e che chiedono aiuto, creando un corto circuito che porta moltissime donne a non denunciare, o a non essere credute, supportate, assistite, rimanendo spesso abbandonate a sé stesse. Un sistema da sempre ostile alle survivor che all'interno del dibattito pubblico fa sempre fatica ad ascoltare e a credere alla vittime, spesso ritenute donne in cerca di visibilità o di un compenso economico, come appunto nel caso Genovese. I tre casi delle serie Rai non fanno che alimentare questa narrazione e questo stereotipo di genere, che dipinge le donne come bugiarde patologiche sempre alla ricerca di un modo per denigrare gli uomini.
Le grandi polemiche che si sono scatenate intorno alle fiction Rai derivano anche dal ruolo che il servizio pubblico dovrebbe avere (e che in passato ha avuto) nell'educazione del pubblico e nel veicolare un'immagine composita ma veritiera della realtà italiana. Una sfida che si sta facendo sempre più complicata e che sta mostrando il divario generazionale che esiste tra chi quei prodotti li pensa, li scrive e il produce, e chi li consuma, guardandoli con occhio estremamente critico. Non dimentichiamoci che appena un anno fa eravamo intenti a demolire Amadeus per la conferenza stampa pre Sanremo in cui, circondato da un harem di conduttrici, si affrettava a definirle quante più volte possibile "belle" (ed oggi si appresta a presentare l'edizione di quest'anno del Festival). Certamente i vertici Rai non hanno mai sentito il nome di Carlotta Vagnoli, con molta probabilità ignorano ciò che succede online e ciò che i loro programmi hanno scatenato, restando felicemente intrappolati in un ambiente anacronistico, misogino e molto superato. Ma sembra che per la Rai - e la tv in generale - vada bene così.