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Cosa significa essere donna in Afghanistan oggi

Il ritorno del regime talebano sta cancellando diritti ed empowerment, riportando le donne ad un medioevo misogino e oscurantista

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Noi non contiamo perché siamo nate in Afghanistan, scompariremo lentamente dalla storia. A nessuno importa di noi.

La voce di questa giovane ragazza, protagonista di un video diventato virale, diffuso via Twitter dalla giornalista iraniana Masih Alinejad, che tra le lacrime descrive l’orrore e la paura per il ritorno dei talebani nel paese è un pugno nello stomaco. È un dolore lancinante che urla sempre forte più ogni volta che arriva una nuova testimonianza a descrivere l’oscurità e l’incertezza che si abbatte sul futuro delle donne afghane.

In soli 10 giorni, man mano che le province capitolavano sotto il controllo degli integralisti religiosi guidati da Haiabatullah Akhunzada e delle loro leggi, quella bandiera bianca con una scritta nera che ora sventola sul palazzo presidenziale di Kabul ha spazzato via ogni piccola conquista ottenuta dopo il 2001, quando la caduta del regime islamico aveva permesso l’affievolirsi delle limitazioni imposte alle donne. O almeno è quello che in molti pensano avverrà tra breve, segnando un ritorno a quel medioevo fondamentalista e misogino che regnava vent’anni fa. La quotidianità che si prospetta è la stessa che caratterizzava il periodo dal 1996 al 2001 e che viene perfettamente riassunta dall’Huffington Post:

Alle donne non veniva permesso di uscire di casa, se non accompagnate da un tutore maschio. Il burqa era obbligatorio, non potevano truccarsi, usare smalto, indossare gioielli. Non potevano lavorare, frequentare la scuola. Non potevano ridere. Il contatto con gli uomini veniva filtrato in ogni modo. Non solo gli abiti coprivano ogni parte del corpo: lo sguardo non doveva incrociare quello di un maschio, la mano non poteva stringere quella di sesso opposto. Invisibili, impercettibili, cancellate al punto da dover limitare il rumore prodotto mentre si muovevano: il rumore dei tacchi venne vietato nel luglio del 1997. Le limitazioni si accompagnavano a punizioni esemplari in caso di trasgressione, con amputazioni e pene di morte eseguite in pubblico. Tantissime in quegli anni si sono tolte la vita.

Oggi come allora la loro vita è più in pericolo che mai. E non bastano i tentativi di rassicurazione del portavoce talebano Suhail Shaheen che in un’intervista con la BBC promette alle donne che non hanno nulla da temere, che "il loro diritto all’educazione e al lavoro resta", che "possono vivere le loro vite normalmente" e partecipare alla società "entro i limiti della legge islamica".

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La realtà svelata dai media di tutto il mondo dipinge uno scenario tanto preoccupante ed atroce da far impallidire anche il futuro distopico di Handmaid's Tale. Le tante testimonianze parlano di "ragazze portate via con la forza, costrette a sposarsi con uomini che non hanno mai visto"; di accesso negato a scuole e università; di donne rimosse dai loro luoghi di lavoro; di studentesse che nascondono i documenti che provano la loro iscrizione in università e ogni altro segno di empowerment, costrette a scambiare make-up e abiti con dei chadari, i burqa afgani. 

A La Repubblica una giornalista afghana di 26 anni confessa:

Stanno girando per le strade, chiedono alle donne come si chiamano e che lavoro fanno. Ci uccideranno tutte. E se non lo faranno ci ributteranno sotto i burqa che è un po' come morire lentamente.

Una studentessa universitaria racconta a The Guardian:

Come donna, mi sento vittima di questa guerra politica iniziata dagli uomini. Ho l’impressione che non potrò più ridere ad alta voce, ascoltare le mie canzoni preferite, più incontrare i miei amici nel nostro caffè preferito, indossare il mio vestito giallo preferito o il rossetto rosa. E non potrò più andare al mio lavoro o conseguire la laurea per cui ho studiato per anni.

Le fa eco su Twitter la fotografa Rada Akbar:

Le città collassano, i corpi umani collassano, la storia e il futuro collassa, la vita e la bellezza collassa, il nostro mondo collassa. Vi prego, qualcuno fermi tutto questo. 

Così le immagini degli uomini che cancellano dai cartelloni pubblicitari e dalle vetrine dei negozi i poster che ritraggono donne dal look non conforme alla sharia, diventano lo specchio del destino della popolazione femminile afghana.

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C’è chi ricorda che sebbene la caduta del regime del 2001 abbia reso di nuovo le donne visibili, rendendo il burqa non più obbligatorio, riconoscendo loro il diritto di voto e all’istruzione o inserendone dallo scorso anno i nomi sulle carte di identità dei figli (i nomi delle donne non compaiono nè nei documenti né sulle lapidi dei cimiteri), l’Afghanistan è considerato il peggior posto in cui nascere se sei donna e la strada per una concreta emancipazione era ancora lunga. Quelle che possono sembrare piccole conquiste, per una nuova generazione di ragazze afgane cresciute andando a scuola e coltivando sogni di libertà erano una realtà che dava loro non solo speranza, ma il sacrosanto diritto ad avere una voce. Speranza che la rinascita dell’Emirato Islamico sta spazzando via. Quando alla fine di questo mese di agosto, le ultime truppe statunitensi lasceranno lo stato, come ha detto il presidente degli Stati Uniti Joe Biden "gli afghani dovranno combattere per se stessi". Leggendo frasi del genere e le shoccanti testimonianze che ci ricordano che la visione oscurantista dell'Islam adottata dai talebani vuole sottomesse, soggiogate, schiave, invisibili, sentiamo crescere sdegno, rabbia e senso di impotenza. 

Cosa possiamo fare per le donne afghane? Tenere i riflettori puntati su di loro, condividere le loro testimonianze e supportare le onlus che hanno progetti sanitari e di empowerment in Afghanistan, da Emergency a Medici Senza Frontiere, da CISDA, (Coordinamento Italiano Sostegno Donne Afghan) a Learn Afghan, fino a Fondazione Pangea, una delle prime a lanciare l’allarme sulla situazione attuale, che nelle ultime ore è impegnate a salvaguardare la vita delle attiviste e collaboratrici dalle reazioni dei talebani cancellando ogni nome o informazione che testimoni il loro lavoro di empowerment.   

Bisogna organizzare corridoi umanitari, bisogna salvare donne, famiglie, lo staff che lavora con noi. Abbiamo chiesto di rimpatriare 280 persone e ancora non sappiamo niente. - Spiega Simona Lanzoni, vicepresidente di Pangea a La Repubblica - Per contrastare i talebani bisogna creare un'alternativa e questa è rappresentata dalle donne. Non è tenendo le donne nell'ignoranza, nella servitù totale che questo paese cambierà, bisogna salvarle per creare una nuova generazione di donne forti. Se servirà lo faremo da lontano. Spero di non vedere le stesse scene di allora, donne violentate, lapidate, i matrimoni precoci, e pensare che possano farlo allo staff con cui lavori da 20 anni, è mortale.