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Possiamo fidarci dei documentari sulle star?

Da Taylor Swift a David Beckham, forse si tratta più di personal branding che di tv-verità

Possiamo fidarci dei documentari sulle star? Da Taylor Swift a David Beckham, forse si tratta più di personal branding che di tv-verità

I documentari sulla vita di personaggi famosi, dagli sportivi vittoriosi alle popstar, sono sempre stati fatti e anche apprezzati dal pubblico. Negli ultimi anni, però, sembrano star attraversando un periodo di gloria, prodotti e decisi in totale collaborazione con le persone che intendono raccontare con assoluta neutralità. Normalità o conflitto di interessi? Un documentario può rispettare le sue premesse in queste condizioni?

Chiara Ferragni: Unposted

Nell’ottobre del 2019, su soggetto di Chiara Ferragni e regia di Elisa Amoroso, vide la luce Unposted, documentario sull’influencer e fenomeno culturale pop. L’opera venne presentata al Festival del Cinema di Venezia, distribuita nelle sale con proiezioni-evento limitate e approdò in seguito su Prime Video. Il produttore esecutivo (tra gli altri) era Fabio Maria Damato, general manager del brand Chiara Ferragni e della sua agenzia, la The Blonde Salad. La regista, in occasione del lancio veneziano, aveva dichiarato: «Io e Chiara ci siamo incontrate: sin da subito è nato un particolare feeling, un'empatia che ha dato poi vita al documentario».

Marketing multicanale

Insomma, una vera e propria operazione di marketing (e cosa c’è di nuovo) pervasivo e multicanale, ma anche un modo per contestualizzare, legittimare e fornire autorevolezza al Fenomeno Ferragni, come venne chiamata l’intervista alla protagonista portata avanti da Simona Ventura e andata in onda dopo Unposted su Rai 2, e alla persona che lo rappresenta. Un tentativo, e saranno i posteri a stabilire se riuscito o meno, di farla assurgere a icona e volto del cambiamento digitale e del pianeta influencer in toto in Italia. 

Il caso del documentario su David Beckham

Adesso è il turno di David Beckham. La docu-serie in 4 parti sulla sua vita, intitolata semplicemente Beckham e diretta da Fisher Stevens, ha debuttato su Netflix il 4 ottobre. Pur spaziando dalla sua infanzia alla contemporaneità, con parentesi sul suo ingresso nel mondo del calcio e sulla sua carriera, dà molto spazio anche alla sua vita privata e soprattutto alla sua storia d’amore con Victoria Beckham, che gli fa quasi da co-protagonista. Gli utenti dei social, in effetti, si sono concentrati su questa linea narrativa e sui siparietti tra i coniugi. Uno, in particolare, ha diviso il pubblico.

Posh Spice divide gli utenti

Victoria, in camicia bianca e capelli raccolti, sta raccontando della sua infanzia e della sua famiglia, che lei definisce “working class”. David, che evidentemente la stava ascoltando da fuori, interviene immediatamente, e la invita a dire a tutti in che automobile veniva accompagnata a scuola dal padre, implicando che la definizione di “working class” data dalla Posh Spice non fosse esatta. Lei nicchia, alla fine cede: si trattava di una Rolls Royce. David, soddisfatto, ringrazia ed esce dalla stanza. Secondo alcuni questa scena è divertente, un bell’esempio di ironia tra coniugi e complicità. Secondo altri, non fa altro che sottolineare quanto queste persone siano staccate dalla realtà ormai da decenni e in maniera terminale, e risulta antipatica e insultante.

Un episodio inserito ad arte?

Che sia l’uno o l’altra, è da rilevare che anche in questo caso, come ha dichiarato candidamente lo stesso Fisher, era lo sportivo che stava cercando un regista per il suo documentario, ed è stato Leonardo DiCaprio a metterli in contatto e a far succedere la magia. Il movimento di intenzioni è chiaro: David Beckham ha sentito il bisogno di mettere in una docu-serie la sua storia, raccontata da lui, e ha scelto una crew prima e una produzione poi che glielo permettesse naturalmente, possiamo immaginare, alle sue condizioni e per ancora una volta dare legittimità, contesto e autorevolezza al suo personaggio, che trascende il calcio e arriva allo showbusiness, alla cultura pop e anche alla moda. In quest’ottica, anche l’inserimento di uno scambio che potrebbe essere considerato come antipatico da una parte del pubblico si trasforma sotto una luce diversa: quella del branding personale

Taylor Swift: Miss Americana

Nel mezzo, un altro documentario che vale la pena approfondire. Stiamo parlando di Miss Americana, del 2020. Questa opera, diretta da Lana Wilson e sceneggiata da Taylor Swift in persona, si incastona perfettamente in un’operazione di rebranding di Taylor Swift che andava avanti da Reputation (2017) e che ha completamente capovolto la sua immagine pubblica, trasformandola da una biondina insipida e antipatica, velenosa e ignava, nemica di Kim Kardashian e Katy Perry, a una persona adulta, sfaccettata e politicamente schierata, e mostrandoci con abilità i dietro le quinte delle sue sofferenze e decisioni in un periodo oscuro della sua vita, forse anche per farci empatizzare con lei. 

Documentari che non sono documentari

Gli esempi si sprecano, e la domanda è una sola: un documentario è ancora definibile come tale se porta avanti la narrativa voluta dal suo protagonista e di conseguenza si incastra alla perfezione nell’immagine di sé che questo protagonista vuole dare al mondo? Nessuno scandalo, i documentari hanno bisogno di fondi e di accesso a materiali di archivio, spazi, autorizzazioni e interviste che solo la persona interessata può dare, l’importante è tenere ben presente che quello che vediamo è in larga parte pubblicità, e anche gli episodi più apparentemente genuini sono mossi da intenti precisissimi.