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La gogna mediatica dà, la gogna mediatica toglie

Serena Doe è solo l'ultimo degli esempi: i modi sono tutti sbagliati, che siano a favore o contro di noi

La gogna mediatica dà, la gogna mediatica toglie Serena Doe è solo l'ultimo degli esempi: i modi sono tutti sbagliati, che siano a favore o contro di noi

Serena Doe è nei guai. O meglio, sta ricevendo in queste ore su Instagram delle accuse molto gravi. A farle sono Serena Fonte prima e Carlotta Vagnoli poi, che raccontano di essere state prese di mira da Doe, che avrebbe addirittura tenuto banco in un gruppo Telegram di 70 membri, condividendo conversazioni private, storie verdi e in generale foto e materiali delicati a fini diffamatori, per parlare male delle sue "nemiche". Se queste accuse si dimostrassero vere (e noi, come atteggiamento di base, tendiamo a credere alle vittime, o almeno a dargli il beneficio del dubbio) oltre che molto molto gravi sarebbero potenzialmente perseguibili per legge e metterebbero sotto il microscopio un sistema intero: quello delle influencer attiviste (influattiviste?) in generale, con tutti i suoi difetti, le sue mancanze, le sue parzialità e i suoi errori di modalità.

La gogna mediatica dà, la gogna mediatica toglie Serena Doe è solo l'ultimo degli esempi: i modi sono tutti sbagliati, che siano a favore o contro di noi | Image 505879
La gogna mediatica dà, la gogna mediatica toglie Serena Doe è solo l'ultimo degli esempi: i modi sono tutti sbagliati, che siano a favore o contro di noi | Image 505878

Nello specifico, poi, smonterebbe in gran parte anche in parte l'attività di Serena Doe, che è diventata famosa e autorevole parlando dello sharenting, cioè dell'abitudine dei genitori di condividere la vita dei loro figli sui social, di guadagnarci sopra, di diventare family vlogger di professione. Tutto giusto e condivisibile, se non fosse che Serena Doe, nella battaglia contro le sue nemiche, avrebbe violato gli stessi principi di privacy e consenso che usa come argomentazioni principali. Certo, Fonte e Vagnoli sono maggiorenni, ma le differenze si fermano qui. Pur essendo d'accordo con le sue lotte (e non sempre con i suoi modi), viene da chiedersi in buona fede e sperando in una risposta positiva in quale misura queste lotte siano sincere e sentite e quanto, in effetti, con il tempo si siano trasformate in un mezzo per la fama e per la gloria, più che in un obiettivo sincero. Se non è così, saremo contente di essere smentite. Intanto, però, i dubbi ci sembrano leciti e proporzionati alle rivelazioni e alle testimonianze delle ultime ore. 

Le modalità della gogna social purtroppo valgono per tutti

Le cose principali da sapere sono queste. Qualunque sia la nostra opinione sui personaggi coinvolti (tra i cui si è aggiunta in queste ore anche Selvaggia Lucarelli, che con Serena Doe condivide istanze e modi) e su quello in cui credono, c'è da ammettere che qualcosa non funziona. Sui social, molti utenti si sono affrettati a difendere l'accusata, parlando di gogna mediatica (in questo caso, di gogna social). Ancora una volta tutto vero, e ancora una volta però questa argomentazione scatena in noi delle domande. Se la gogna social fa male ed è da condannare in toto quando è rivolta a chi ci piace e a chi seguiamo con piacere, perché quando viene aizzata contro chi ci sta proprio molto antipatico allora va bene? Eppure, le modalità sono le stesse. Una gogna social è generalmente violenta, impulsiva, travolgente, spesso non ha prove cocenti, anzi si basa su un sentimento di rabbia e astio covato segretamente, contento e gioioso di aver trovato finalmente motivo di essere sfogato. Quando questo meccanismo non lo si impugna, può capitare di subirlo, e forse la colpa è anche nostra per averlo alimentato, anche se in un'altra direzione, quella opposta alla nostra. E allora, perché non cambiare modi e modalità e invitare le persone a fermarsi a pensare sempre, non solo quando a essere nell'occhio del ciclone siamo noi? Perché non lasciare da parte l'atteggiamento aggressivo, polemico a tutti i costi, da debunker ninja, per non invitare il nostro pubblico alla riflessione? Perché non paga abbastanza, forse. Perché non ci fa diventare famosi, perché non è abbastanza efficace sui social network. E qui andiamo al secondo punto. 

L'attivismo sui social non esiste

L'altra questione che questo caso può aiutarci a mettere in luce è quella dell'attivismo sui social. Abbiamo scritto in diverse occasioni di come questo concetto fosse da ripensare, se non da debellare completamente, di come rischiasse di svuotare e di togliere forza a istanze reali e importanti, perché mette di fronte a tutto la persona, la personalità, il brand. Cosa significa fare attivismo oggi? Informarsi, battersi per le cose in cui si crede? Tantissime cose. Far parte di gruppi e associazioni, mandare lettere e e-mail ai nostri rappresentanti, raccogliere le firme e promuovere le petizioni, donare a realtà di cui ci fidiamo che si muovono sul territorio, esserci con il corpo e con la presenza, con il nostro tempo. Tutto questo ci sembra incredibilmente demodé, e la colpa forse è anche delle attiviste social, o perlomeno di alcune, che si sono adagiate sulle loro infografiche esteticamente soddisfacenti, che hanno confuso in maniera forse irreparabile i confini tra giornalismo e copywriting, tra magazine o testata registrata e profilo Instagram, che usano le cause come mezzo per la popolarità e non come fine. Da fruitori, non possiamo fare altro che stare attenti, diffidare dai modi aggressivi, chiederci se queste persone ci credono davvero oppure no, farci personalmente attivisti, approfondire e prendere consapevolezza del nostro potere di follower