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Abbiamo paura di stare offline?

Se anche voi non vi allontanate mai dallo smartphone, potreste soffrire di FOBO

Abbiamo paura di stare offline? Se anche voi non vi allontanate mai dallo smartphone, potreste soffrire di FOBO

Negli ultimi anni abbiamo familiarizzato con una lunga serie di acronimi volti a sintetizzare comportamenti e tendenze contemporanee che ci restituiscono un'istantanea a volte preoccupante delle nostre vite oggi. Dopo aver imparato il significato di FOMO (Fear of Missing Out), JOMO (Joy of Missing Out) e FOSO (Fear of Starting Over), è arrivato il momento della FOBO, letteralmente Fear Of Being Offline. Se portate sempre con voi lo smartphone, lo controllate ossessivamente ogni 5 minuti, lo avete al vostro fianco anche quando mangiate, non scordate mai di dare un'ultima occhiata a mail e social prima di dormire e durante un date scrutate più attentamente quel piccolo schermo che la persona davanti a voi, allora potreste soffrire di questa paura.

Cos'è la FOBO

La paura di essere offline descrive il panico e l'ansia che alcuni provano quando non riescono ad accedere a Internet. Strettamente legata alla nomofobia, ovvero la paura di non avere a disposizione il proprio mobile phone, la FOBO è scatenata dalla possibilità di perdere qualcosa di importante se non si è collegati. È quel brivido di terrore che vi pervade in vacanza alla notizia dell’assenza di wi-fi nell'hotel, quel senso di vuoto provato nel non conoscere a memoria la home page di Instagram o lo stress che si sprigiona quando il telefono sta per scaricarsi, lasciando silente il beep di e-mail, notifiche e aggiornamenti social. 

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FOBO e lavoro: e se portasse al burnout?

Nell'ambito lavorativo il concetto di FOBO assume un'altra connotazione. Allude al desiderio di dimostrare che siamo costantemente produttivi e sul pezzo. Perché il cielo non voglia che perdiamo un messaggio su Slack nel minuto impiegato per andare alla toilette, per fare un caffè o per ritirare il bucato. Ci sentiamo in obbligo di essere reperibili 24 ore su 24, 7 giorni su 7 perché percepiamo ogni minimo allontanamento dallo schermo come una grave inadempienza. "Poiché possiamo sempre essere raggiungibili, le persone tendono a pensare anche che dobbiamo esserlo", spiega la psicologa Ashley Hampton, sottolineando che quando il diktat non viene dall’esterno, arriva da noi stessi "A volte le persone non si aspettano una risposta immediata, siamo noi invece a pensare che se lo facciano". Il risultato è una tale confusione di spazi privati e spazi professionali che nel migliore dei casi ci trasforma tutti in workaholic, nei peggiori porta al burnout. Da dove deriva questo comportamento? Dall’esperienza del lockdown.

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Di più non significa meglio

Come dice la career coach Emily Button-Lyhman: "Durante il Covid i limiti tra il lavoro e l'ambiente di casa sono diventati molto sfumati e ci siamo abituati a mostrarci reperibili a tutte le ore, così tutti i colleghi hanno aumentato le loro aspettative sulla mole di lavoro". La cosa, però, è andata ben oltre il Covid. Da quando siamo tornati in ufficio, alcuni datori di lavoro si aspettano gli stessi livelli di lavoro e richiedono ai propri dipendenti di essere sempre disponibili. Complice un'idea di riposo equivalente a quella di debolezza, siamo perennemente connessi eppure a questo sforzo maggiore non sempre corrispondono prestazioni migliori. Anzi. Il questo presenzialismo forzato spesso si rivela controproducente. Né sano né produttivo.

Il lavoro secondo la Gen Z 

Non dobbiamo dedicare la nostra intera vita al lavoro. La Gen Z sembra averlo capito, preferendo un impiego flessibile e uno stile di vita in cui il successo professionale non vada a scapito della salute e della felicità personale. Ma sembra più facile a dirsi che a farsi. Secondo Silvia Mérida Expósito, psicologa di BluaU de Sanitas, è lo svantaggio della flessibilità offerta dalla tecnologia che ci rende sempre disponibili: "Nella società in cui viviamo, esiste una certa pressione sociale e lavorativa per mantenere produttività e disponibilità costanti. Attualmente, questa aspettativa è stata guidata dalla tecnologia, poiché ci consente di essere sempre connessi. La paura di essere percepiti come non impegnati nel lavoro può portarci a sentire il bisogno di giustificare il tempo in cui stiamo facendo qualcosa al di fuori del lavoro; qualcosa che con il telelavoro è diventato più comune".

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Un problema di confini

Cosa possiamo fare per riprenderci il nostro tempo libero e la nostra salute mentale? Tracciare confini quanto più distinti possibili tra lavoro e vita privata. Le aziende, dal canto loro, dovrebbero incoraggiare una cultura del lavoro sana e prendere atto dell’importanza di riposo e tempo libero che, in realtà, può rendere i propri dipendenti più felici, sani e produttivi. Dovrebbero imparare ad accettare e incoraggiare attivamente le pause e i momenti off line, non solo durante le vacanze ma anche durante il lavoro quotidiano. Finché il lavoro che ci è stato assegnato viene svolto e completato in tempo, non dovremmo sentirci obbligati a informare colleghi e capi ogni volta che siamo distanti meno di un metro dal pc. Quando è terminato l’orario di lavoro, dovremmo spegnere le notifiche di e-mail, non rispondere alle call e lasciare scadenze e problemi in ufficio. Non è facile, ma con un po' di esercizio potremmo finalmente accettare che il mondo non esploderà per un messaggio WhatsApp non aperto.