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Il digital detox è come curare una coltellata con un cerotto

Inutile e controproducente

Il digital detox è come curare una coltellata con un cerotto Inutile e controproducente

Se non sono su Instagram non esisto. Se sono su TikTok è meglio. Se sono su Facebook, invece, sono una vecchia. Ma almeno esisto. Se mi perdo una notifica o non rispondo all’istante a un vocale di 5 minuti su WhatsApp allora sto facendo ghosting. E non va bene. Se ho la tv sono una sfigata perché le serie si vedono proiettate sul muro e con l’abbonamento a Mubi. In alternativa va bene anche scrollare compulsivamente la home di Instagram o trascorrere 10 minuti su TikTok a vedere una tizia che lessa il riso e un tipo che ti spiega cosa c’entra Lana del Rey con Dante. Se non ordino la spesa su Deliveroo e vado a farla al supermercato mi si aggravano il mal di schiena e quell’ernia al disco che mi è spuntata a forza di star seduta davanti al pc. Non accorgermi di quel pallino rosso che improvvisamente appare sull’icona di Tinder equivale a perdere l’anima gemella. Stare in silenzio o fare due chiacchere con uno sconosciuto mentre aspetto il bus è pura fantascienza, non è per questo che hanno inventato Spotify e Candy Crush? E se stacco il telefono e c’è un’emergenza familiare? No, disconnettersi non è opzione praticabile. E il digital detox di cui tutti parlano è una menzogna socialmente accettata, come credere che, quando il Titanic affonda, Di Caprio muoia perché sulla zattera di fortuna alla quale Kate Winslet si aggrappa non c’è spazio. Peggio, forse è l’ennesima tendenza passeggera basata sul nostro senso di colpa e venduta da quella stessa industria che ha creato il problema. O mi sbaglio?

Digital detox: smettere di usare la tecnologia migliora davvero la vita?

Secondo l’Oxford Dictionary il digital detox è "periodo di tempo durante il quale una persona si astiene dall'utilizzare gadget elettronici, come il proprio smartphone, come un'opportunità per alleviare lo stress o concentrarsi sulla connessione sociale nel mondo reale". L’idea base consiste nello staccare la spina da ogni dispositivo e incanalare le energie e il tempo speso a controllare le email o a leggere l’autobiografia di Demi Moore sul Kindle in attività offline. Si può optare per un semplice social detox, cioè alla sospensione dell’utilizzo dei social network, o per una vera e propria disintossicazione tecnologica, che significa dire addio ad ogni dispositivo elettronico che si connetta ad una rete. Per quanto tempo? Dipende. Non c’è un periodo di astinenza standard. Stabilirlo rimane una scelta individuale. Ci si può limitare a 24 ore, ad un intero weekend o testare la propria resistenza prolungando il digiuno digitale per settimane o mesi. Il premio per chi ci riesce? Un rapporto più sano con l’oggetto del desiderio? Forse, ma, soprattutto, una salute migliore, mentale e non solo.

Dipendenza da smartphone e techno-stress: perché la Gen Z vuole disconnettersi

Diversi studi recenti lo hanno stabilito: techno-stress, affaticamento mentale e nomofobia, cioè il terrore di separarsi dal proprio smartphone, stanno crescendo a ritmi preoccupanti, scatenando ansia, stress, irritabilità, difficoltà di concentrazione e disturbi del sonno. Secondo un recente sondaggio di Deloitte Germania, condotto a maggio 2024 su 2.000 utenti, il 56% degli intervistati ha riferito di andare a dormire tardi, essere distratto o sentirsi costretto a controllare il telefono in modo ossessivo e quasi un intervistato su cinque (19%) nella fascia di età compresa tra i 18 e i 24 anni ha attribuito all’uso eccessivo dello smartphone la responsabilità di disagi fisici come mal di testa e problemi agli occhi. L’84% dei partecipanti più giovani al sondaggio ritiene di usare i propri telefoni "troppo". Conscia degli effetti negativi sulla salute mentale e fisica, la Gen Z confessa di essere dipendente dal digitale e di aver bisogno di un detox. L’interesse verso un rapporto più sano con app e social media si insinua tra i buoni propositi per il 2025, dove compaiono sempre più termini come "disconnettersi", "ridurre il tempo trascorso davanti agli schermi", "stare all’aria aperta" o addirittura "eliminare le app dei social media". Sì, ma come?

Dai flip phone alle app detox: il business della disconnessione digitale

Su Tiktok c’è un gruppo crescenti di Millenials e appartenenti alla Gen Z che, al grido #bringbackflipphones, ha scelto di praticare il digital detox ritornando ai cellulari a conchiglia. Altri, prima che il cervello marcisca (brain rot vi dice qualcosa?) per il consumo eccessivo e compulsivo di device online, aderiscono a challenge motivazionali, si affidano ad app, come Opal, Forest e Jomo. Chi vuole "affrontare lo stress digitale e migliorare la propria vita" può scegliere tra un oceano di possibilità, che vanno dalle guide online ai libri di auto-aiuto, dai corsi ai viaggi e ritiri benessere tech-free che promettono una quasi mistica rigenerazione psico-fisica. Un insieme eclettico di soluzioni palliative che creano un mercato miliardario, tanto che, parlando delle sole app per il digital detox, si prevede che il loro valore salga dai circa 0,39 miliardi di dollari del 2023 fino a circa 19,44 miliardi entro il 2032. 

La cultura del detox: soluzione reale o business della dipendenza?

Se creare un problema per poi vendere la soluzione è una delle colonne portanti dell’economia capitalista, la cultura del detox ne è l’esempio migliore. Non importa che si parli di disintossicazione dall’alcool, dal cibo o dai social media. Monetizzare le nostre ansie culturali, sfruttando un meccanismo non troppo dissimile da quello che lega un drogato alla sostanza preferita, è un’arte che si applica perfettamente anche all’online. Gli algoritmi sono sempre bravi ad intercettare gli interessi degli utenti e le piattaforme social sono sviluppate per favorire l’assuefazione, dandoci la finta certezza che la nostra vita non esista se non postiamo. Basta pensare che, come spiega, Anna Lembke, esperta di medicina delle dipendenze e autrice di Dopamine Nation: Finding Balance in the Age of Indulgence, riguardo all’effetto dei social sul cervello: "Ogni like, commento o video carino di un gatto scatena un’ondata di dopamina, il neurotrasmettitore che fa stare bene". Se, poi, aggiungiamo che la fonte della cura è la spesso la stessa che ha creato il problema, sembra evidente che ci sia qualcosa di sbagliato. Che senso ha rinunciare ai social per una settimana, ma monitorare con lo smartphone ogni momento di quel detox, per poi postarlo e condividerlo online?

Digital detox: perché disconnettersi non è la soluzione e come coltivare un rapporto sostenibile con la tecnologia

Coltivare un rapporto più sano con la tecnologia è di certo auspicale e possibile. Credere che basti fare un ritiro New Age o astenersi dallo scrolling per un’ora al giorno è utopistico. Ogni pratica di digital detox, seppur sembri utile nell’immediato, è, al massimo, una manifestazione della propria caparbietà oppositiva ad un sistema pervasivo che non è interamente rimovibile, perché fa parte della realtà che viviamo oggi. Avere un’app che ci indica quanto tempo passiamo su Instagram può farci riflettere sul perché lo facciamo, ma certo non è uno strumento risolutivo, come confermano alcuni studi affermanti che i digital detox non funzionano. Ad essere onesti, staccare la spina anche per un tempo limitato per chi svolge una professione digitale, in particolar modo da freelance, significa perdere un lavoro. Astenersi dall’uso di Internet è un problema complicato e sfumato, che non può esaurirsi al conoscere quante ore passiamo su TikTok o a fare una passeggiata invece di una call su Zoom. Sarebbe necessario parlare di ritmi lavoro più sostenibili, costruzione di nuovi spazi aggregativi a cui poter accedere gratuitamente, approfondire l’impulso ad essere costantemente iper-performativi, riqualificare la tolleranza alla noia e detonare i meccanismi che ci fanno star male se non abbiamo lo smartphone a portata di mano. Non esistono soluzioni facili, immediate. Possiamo solo cercare di bilanciare ogni aspetto delle nostre vite, compreso quello online, come un funambolo che sotto ai suoi piedi ha metri di vuoto. E non c’è rete che lo protegga. Solo il rischio di cadere.