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Cos’è il "Good For Her" Cinematic Universe?

E perché non deve avere per forza un happy ending

Cos’è il Good For Her Cinematic Universe? E perché non deve avere per forza un happy ending

Nella scena finale di Cena con delitto - Knives Out del 2019 la protagonista del cast corale Ana De Armas osserva dall’alto del balcone della tenuta dei Thrombey, la famiglia di cui ha appena ereditato la fortuna. Dopo una serie di indagini condotte dal detective privato Benoît Blanc, interpretato dall’affascinante Daniel Craig, si è scoperto che il famoso scrittore di gialli di cui la ragazza si prendeva cura ha lasciato a lei tutti i suoi averi invece che ad un gruppo di familiari cinici e egoisti, che a loro modo hanno cercato anche di farla fuori per non vederle consegnato nemmeno un centesimo del loro patrimonio, finendo invece sbattuti fuori di casa mentre la giovane beve dalla sua nuova tazza con su scritto: My House, My Rules, My Coffee (coprendo intenzionalmente le ultime due frasi e marcando particolarmente su quel ‘My House’). Il film scritto e diretto da Rian Johnson, è diventato una saga proseguita nel 2022 e di ritorno nel 2025 e racchiude nella scena finale il sunto perfetto del "Good for Her" Cinematic Universe. L’esempio più lampante e esplicativo di un sottogenere che ha preso sempre più piede nella cultura mainstream. Un filone in cui a salvarsi c’è una donna che non sfugge necessariamente ad un assassino o alla morte certa, come accade in una specifica diramazione dell’horror (lo slasher), ma opere in cui dopo tutto ciò che le succede le cose non possono che volgere per il meglio. Il che non implica necessariamente un happy ending, ma una presa di coscienza sul fatto che ci si è spostati dallo stato originario a inizio film arrivando ad una fine che è la migliore che ci si potesse augurare, che ciò avvenga sia se si è agito nel giusto o, a volte, anche nello sbagliato.

Ad aver dato il via alla definizione del Good for Her Cinematic Universe è stato il personaggio di Lucille Bluth nella serie comedy Arrested Development. Interpretata da Jessica Walter, la matriarca della serie creata da Mitchell Hurwitz si rivolge con la frase «Good for her» al televisore mentre passa al telegiornale la storia di una donna esausta e stressata che ha lasciato sprofondare in un lago la sua macchina. Se il commento dice tanto della caratterizzazione del personaggio di Lucille, assurdo e discutibile proprio come tutti i componenti della famiglia di Arrested Development - e per questo irresistibili - il suo essere diventato meme attraverso i social ha contribuito a veicolare nel tempo un determinato messaggio. L’idea di assecondare e sentirsi a propria volta soddisfatti nel vedere che una donna riesca a riprendere in mano la propria vita raggiungendo e conquistando i propri obiettivi. O, anche, liberandosene. Non più aspettando che siano questi a venire da lei (sebbene a volte accade anche così, teniamo sempre a mentre Knives Out), ma spesso vedendola agire a raggiungere ciò che più desidera. 

Sebbene non codificate, ci sono delle regole narrative che il sottogenere segue, mobili e variabili, ma che mantengono una specie di impalcatura per un simile tipo di storie. Innanzitutto il personaggio femminile in questione deve superare spesso delle situazioni complesse, a volte muovendosi attraverso temi sociali da dover affrontare (vedi il sessismo), altri avendo a che fare con il superamento di un ostacolo causato da un dato specifico, spesso connaturato ad un abuso o ad un’esperienza traumatica. C’è poi l’evoluzione dell’arco narrativo che la personaggia deve intraprendere, che deve comprendere la ricerca di una propria autonomia, l’imparare a difendere se stessa, lo scappare da situazioni sfavorevoli e soprattutto capire di dover mettere finalmente al primo posto se stessa. Per concludere, il terzo punto da seguire per i film Good for her è l’esaltazione e la celebrazione dei diritti delle donne e, talvolta, anche i loro errori. Un ribaltamento, quest’ultimo, su come si pensa spesso debbano essere le donne e su come il sottogenere ne ha modificato la prospettiva: non sempre tali protagoniste si muovono infatti con correttezza per procurarsi ciò che vogliono, ma è comunque comprensibile il perché lo fanno e, perciò, vanno supportate.

 

L’horror è senz’altro un terreno fertile per un simile tipo di percorso di crescita, che comprende anche il risanamento di un trauma che le protagoniste possono raggiungere col finale. A differenza però dello slasher non si parla più di final girl, perché la protagonista non deve solo cercare di sfuggire dall’arma affilata di un killer - di per sé altra metafora legata al genere che, spesso e per la maggior parte dei casi, si riferisce all’aspetto della sessualità e alla sua punizione con tanto di lama che penetra la carne - bensì l’intraprendere un viaggio nell’auto-consapevolezza in grado di salvare in più modi possibili. La Thomasin di The Witch fa parte del GFHCU, soffocata dalle catene religiose della sua famiglia, alla scoperta della sua autentica natura nell’epilogo satanista del film di Robert Eggers. Susie Bannion del Suspiria di Luca Guadagnino si rivela in conclusione la potente Madre Suspiriorum, non ballerina che vuole diventare la migliore dell’Accademia, ma entità massima che decide di riprendere il controllo della congrega di streghe e ristabilire l’ordine fatto saltare da Helena Markos. In Us un gruppo di doppelgänger vengono guidati da Red per invadere la terra, ma solo in chiusura scopriamo che, in realtà, la protagonista era da sempre stata umana e sta cercando solamente di riprendere il proprio posto sulla terra. Più recente è Heretic, un film dell’orrore dove due ragazze mormoni entrano in casa di un ateo convinto al punto da segregarle e cercare di convincerle di essere lui stesso ad aver scoperto un miracolo, con solo una delle due che potrà liberarsi dalla sua prigionia, religiosa o meno. Con la trilogia di X, poi, Ti West ci ha donato l’eroina moderna per eccellenza, Maxine Minx, che però soltanto nel terzo e ultimo capitolo vediamo effettivamente raggiungere il proprio scopo - dopo molte morti e svariate tragedie - ovvero diventare una star (pur avendo anche Pearl una personalità alla Good for her).

C’è poi il versante romance dell’horror Good for her, dove attraverso il genere più violento di tutti le protagoniste possono interrompere una relazione tossica. Il modello per eccellenza è la Dani di Midsommar, dove non solo Florence Pugh si libera del pessimo fidanzato Christian, ma diventa addirittura la regina di maggio di un‘improbabile popolazione svedese. In Finché morte non ci separi purtroppo Grace si accorge del danno che ha fatto sposando Daniel solamente quando, per la loro prima notte di nozze, la neo sposa dovrà passare il tempo a giocare a nascondino con la famiglia del consorte, dove farsi fare tana vuol dire venire brutalmente uccisa. Ed è liberatoria la sigaretta finale che si concede quando ha fatto fuori tutto il clan del (ex) marito. Tra le ultime ad aggiungersi alla lista c’è Irish, la protagonista di Companion, una robot che non solo già viene sfruttata come fidanzata per soddisfare i bisogni emotivi e sessuali di chiunque l’acquisti (o la noleggi), ma nel film viene manipolata dal partner Josh per uccidere un uomo così da farla franca. È compito della fantascienza, a volte, mostrarci come gli androidi sappiano essere più umani di chi è fatto di carne e sangue ed è esattamente il caso del film di Drew Hancock con Sophie Thatcher, un po’ sulla scia di Ex Machina, seppure di tutt’altro genere e con tutti altri toni. Con un altro film Good for her che, come Companion, comincia sempre con l’incontro della coppia in un supermercato e in cui poi l’uomo si scopre essere un sociopatico: Fresh di Mimi Cave, con la vittima Daisy Edgar-Jones e il cannibale Sebastian Stan.

C’è poi chi, come la Amy Elliott di Gone Girl, forse ha un po’ esagerato a inscenare la propria sparizione, cercato di incastrare il marito Nick, finendo per lasciare dietro a sé una scia di morte, ma è pur vero che era stufa del suo essere rilegata alla figura della ‘cool girl’, la stessa in cui l’uomo, la famiglia e l’intera società l’avevano intrappolata. Alla fine, però, anche lei ce la fa e quando il suo piano non viene smascherato nel film di David Fincher si prova un moto di soddisfazione per il suo avercela fatta, seppur tornando col partner Nick. Una sorta di vendetta che ha cambiato gli equilibri di potere nella coppia, costretta magari a rimane insieme, ma non più alle stesse condizioni. La vendetta rimane un buon presupposto per le protagoniste che vogliono far parte del GFHCU. Lo è a livello soprannaturale per la Megan Fox di Jennifer’s Body, film diventato cult negli anni dove la protagonista, dopo aver subito un abuso (sotto forma di rituale), viene posseduta da un demone che divora gli uomini per mantenersi giovane e bella - con un ulteriore proseguimento sulla figura di Needy e il suo vendicare a propria volta se stessa e l’amica. Lo è per Lee Geum-ja, incarcerata erroneamente per l’omicidio di un bambino in Lady Vendetta, decisa a riversare la propria rabbia sui veri colpevoli in una ricerca di giustizia personale. Lo è per la Jen di Revenge che, nomen omen, vuole e deve sopravvivere facendo fuori i suoi abuser nel rape & revenge di Coralie Fargeat.

 

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E lo è anche in maniera più allargata quella di Cassie in Promising Young Woman, che nel suo prendersela con i responsabili della morte della sua migliore amica, stuprata e ripresa col cellulare, è una minaccia non solo per i coinvolti nel crimine, ma si pone come giustiziera in difesa di tutte le donne da sempre esposte e vittime dei soprusi degli uomini, sostenuti e assecondati da una società patriarcale. Una responsabilità enorme da cui Cassie e la regista Emerald Fennell non si tirano indietro, rendendo il film un vero e proprio manifesto, nonostante la fine tragica riservata alla protagonista (o forse anche proprio per questo). Esattamente come lo è Povere creature! per ciò che riguarda invece il saper (ri)appropriarsi della propria identità. Ri-nata dopo gli esperimenti di uno scienziato e trascorsa la sua vita da bambina ad adulta tutta nel corpo già sviluppato di Emma Stone, la protagonista Bella Baxter intraprende nell’opera di Yorgos Lanthimos un autentico cammino di scoperta nella propria auto-determinazione, imparando cos’è il sesso, il piacere, il lavoro, la cultura e tornando infine sì alla casa del principio, ma con una nuova e appresa cognizione, soprattutto di se stessa. Per non parlare della sua amica dello stesso anno cinematografico, Barbie, che a fine film può finalmente rivendicare di avere una vagina, con Margot Robbie che con la sua casa di produzione, la LuckyChap, sembra fedele al sottogenere sia quando c’è da investirci, che nell’interpretarlo (un altro titolo che la vede protagonista è il cinecomic Birds of Prey). Insomma, che sia un musical sui ruggenti anni Venti (Chicago), un anime tra i più famosi di sempre (Kiki - Consegne a domicilio), un capolavoro dell’horror (Carrie), un thriller/noir anni Settanta (Jackie Brown) o un intrigante dramma (Swallow), se vedete una personaggia arrivare alla fine della storia forte, indipendente, parzialmente illesa e, soprattutto, contenta, non potete fare altro che guardare lo schermo, annuire con la testa e concordare come farebbe Lucille Bluth: good for her.