
La trappola infinita del doversi sempre valorizzare
E se volessimo vestirci per comunicare e non per essere tradizionalmente attraenti?
17 Marzo 2025
Mi sono sempre vestita a modo mio. Dopo la fase streetstyle (pantaloni larghi a vita bassa e sneakers slacciate) è arrivata quella emo, poi quella metallara. Negli anni del liceo a dominare il mio armadio un mix di cose apparentemente molto lontane, dal piumino Moncler agli anfibi Cult, quelli con la punta di ferro. In seguito, ecco che sono arrivate le fasi athleisurewear (colpa di Kylie Jenner), oversize/da uomo, pseudo cottage core e chi più ne ha più ne metta. Ad accompagnarmi in tutti questi cambiamenti e sperimentazioni, un solo grido, ripetuto da tutte le persone che avevo vicine, soprattutto quando più grandi: "Perché non ti valorizzi di più?". In questo invito/richiesta disperata io ci vedevo (e ci vedo ancora oggi) una richiesta di obbedienza, una richiesta di sottomettermi agli ideali di bellezza imperanti che non sono sicura di voler accogliere.
Cosa significa valorizzarsi per una donna?
Io sarò anche una testarda bastian contraria ma, in effetti, se ci pensiamo, cosa significa valorizzarsi per una donna? Se è magra significa sottolineare la magrezza, se è grassa significa nascondere il corpo. Significa sottolineare quelli che per una donna sono percepiti come pregi (le labbra carnose, le ciglia folte, la vita stretta e le gambe lunghe, tutti significanti sociali di disponibilità sessuale) e mascherare quelli che sono percepiti come difetti (labbra sottili, occhi piccoli o infossati, gambe corte, caviglie grosse, spalle troppo larghe, cose che sono associate con la vecchiaia o con la mascolinità). In poche parole, significa rendersi il più attraenti possibile al male gaze, che ci vuole lisce e rosate come ragazzine, ma per sempre. Bambole da copertina, a disagio e sotto pressione, a sistemarci la gonna e il rossetto, a controllare che i capelli siano vaporosi abbastanza, a zoppicare sui tacchi. Talmente tanto che spesso a celebrare il potere della valorizzazione sono le stesse donne, che si sentono in competizione con le loro amiche, colleghe, rivali. Tutto per l'attenzione maschile. Anche incosciamente.
E se volessimo vestirci per comunicare e non per essere tradizionalmente attraenti?
In quest'ottica, dunque, non ci resta che rifiutare il concetto di valorizzazione ipersessualizzante e sottomessa allo sguardo dell'uomo, che è patriarcale fino all'osso. Ripensare l'attrazione, cosa vuol dire sentirci a nostro agio nella nostra pelle, nei nostri vestiti, nel nostro make-up. E se la risposta è: performando la femminilità, allora che sia, ma con una consapevolezza nuova. E per tutte le altre, perché non vestirsi per comunicare? Perché non sperimentare per capire cosa ci piace (a noi, però, al massimo alle nostre amiche) e cosa invece no? Cosa parla con l'esterno, cosa ci aiuta a veicolare chi siamo, quali sono le nostre passioni, i nostri valori. La società della apparenze, quando cerca di liberarsi dalle dinamiche di potere in atto tra i generi, potrebbe anche essere usata a nostro vantaggio, per personalizzare il personaggio che mandiamo in giro, nel mondo. Per fargli dire qualcosa di diverso da: "Sono disponibile al rimorchio". Neanche sempre, ma almeno qualche volta.