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La storia della prima ondata femminista

Dalle Suffragette al Fascismo italiano

La storia della prima ondata femminista Dalle Suffragette al Fascismo italiano

Nelle ultime settimane si è parlato molto del tailleur bianco di Kamala Harris, nuova Vice Presidente degli Stati Uniti, indossato in onore delle suffragette. Ma le suffragette si vestivano solo di bianco? Sì e no. Le fotografie del primo Novecento, ovviamente, erano in bianco e nero, e questo ha dato sicuramente risalto al bianco (anche in contrapposizione alla moltitudine di uomini vestiti di nero che le osservavano marciare), escludendo però colori altrettanto importanti per il movimento: il giallo, il verde e il viola

Il viola rappresentava la lealtà mentre il giallo (o l’oro) era un riferimento ai girasoli del Kansas (Stato in cui Susan B. Anthony ed Elizabeth Cady Stanton - pietre miliari del primo femminismo statunitense - hanno svolto numerose campagne). Nel Regno Unito, il giallo è stato sostituito con il verde, simbolo della speranza. Così nel 1908 le tre tonalità (viola, verde e bianco) sono diventate i colori ufficiali della campagna dell’Unione sociale e politica delle donne (WSPU - Women’s Social and Political Union), diventando presto l’emblema del movimento per il suffragio femminile in generale. Da quel momento in poi le suffragette, in pubblico, indossavano spesso il viola e il verde (o l’oro negli Stati Uniti) come fascia, o accessori, sopra outfit bianchi. Nell’immaginario condiviso il bianco è associato alla purezza e alla virtù. Invece di rompere con la tradizione, le suffragette si sono appropriate degli indicatori visivi stereotipati della femminilità, per la propria causa. Indossare il bianco serviva anche come difesa contro le critiche di chi le considerava intimidatorie, mascoline o sessualmente deviate, perché stavano sfidando lo status quo. Il bianco era un colore accessibile a chiunque volesse unirsi alla causa, e creava una uniforme democratica, che permetteva di essere indossata indipendentemente dalla propria condizione economica. 

 

Chi ha permesso una prima ondata?

Quella che noi oggi chiamiamo “prima ondata femminista” è il risultato di una serie di movimenti (la Rivoluzione francese in primis) e filosofie, come l’Illuminismo, che dal XVIII secolo hanno impregnato la cultura dei Paesi occidentali. La prima ad utilizzare questa espressione è stata la giornalista Martha Weinman Lear, nel marzo 1968 su The New York Times. Ha coniato “prima ondata” per distinguere gli eventi e le lotte a lei contemporanee (quelle, appunto, di “seconda ondata”), dal movimento femminile (perché non tutte si definivano consciamente femministe) che si è sviluppato dalla prima metà del XIX secolo all’inizio del XX secolo. Gli obiettivi della prima ondata erano sostanzialmente - ma non solo - tre: ottenere il suffragio femminile (il diritto di voto), il diritto al lavoro in condizioni sostenibili e l’istruzione femminile per donne e bambine. Negli Stati Uniti si è stabilito che la “prima ondata” indica il periodo tra la conferenza di Seneca Falls (1848) e l’adesione al voto del 1920 (che però, è bene ricordare, escludeva le donne native americane). Seneca Falls è stata la prima convention americana dove si è discusso della condizione sociale, politica e religiosa e i diritti della donna. 

In generale possiamo affermare che in questo periodo le donne si sono mosse per raggiungere uguaglianza giuridica e sociale, libertà personali e diritti politici. Insomma, si battevano contro le disuguaglianze de iure. Ma ogni Paese aveva un background culturale e un contesto sociale differente, quindi non si è potuto creare un movimento globale allineato fin da subito (anche e soprattutto a causa del colonialismo). Come aveva precisato Carla Ravaioli, giornalista e politica italiana, il femminismo ha una storia lontana, però fino a un dato momento si trattava solo di episodi isolati, che non possono essere considerati come fenomeni sociali sensibili con un impatto sulla realtà. Ma sono proprio questi eventi e personalità sporadiche che hanno portato alla diffusione di un sentimento comune. Almeno due sono le figure da ricordare: Olympe de Gouges e Mary Wollstonecraft

Per quanto riguarda la prima, il suo vero nome era Marie Gouze, drammaturga e attivista francese in pieno Settecento. Nei club culturali dell’epoca era spesso discussa l’emancipazione della società francese e il ruolo che la donna avrebbe dovuto avere al suo interno. La teoria politica di Jean-Jacques Rousseau, però, escludeva le donne. Così, dopo la pubblicazione della Dichiarazione dei diritti dell’uomo e del cittadino (1789), Olympe de Gouges, nel 1791, ha redatto la Dichiarazione dei diritti della donna e della cittadina, con cui esigeva la piena assimilazione legale, politica e sociale delle donne. Nel primo articolo della Dichiarazione c’è scritto che la donna nasce libera e ha gli stessi diritti dell’uomo. Da qui il passo alla ghigliottina è stato breve e ogni apertura alle rivendicazioni di quegli anni sono cadute con Napoleone, il quale ha subito relegato le donne a una posizione secondaria, sempre sottomesse a un “tutore” maschile (prima il padre, poi il marito). Nell’anno successivo alla Dichiarazione di de Gouges, Mary Wollstonecraft ha pubblicato A Vindication of the Rights of Woman (la Rivendicazione dei diritti della donna: con critiche sui soggetti politici e morali, 1792). Wollstonecraft è spesso ricordata solo in quanto moglie del filosofo William Goldwin, e madre di Mary Shelley, autrice di Frankenstein, ma il suo contributo al primo femminismo inglese è stato imprescindibile. Nel testo viene messo in luce il ruolo attivo delle donne nella società, specie nel lavoro di cura domestico. Wollstonecraft scrive che le donne non sono inferiori per natura, ma sono considerate tali perché la diversa educazione a loro riservata nella società le pone in una condizione di inferiorità e subordinazione. 

 

“Il lavoro nobilita”

Un’altra proto-femminista è stata Flora Tristan, la quale, nel 1843, ha pubblicato un piccolo opuscolo intitolato Dell’emancipazione della donna e dell’abolizione del divorzio, ponendo attenzione sulla categoria della straniera, ma in cui, soprattutto, legava la figura della donna a quella dell’operaio e a tutte le persone sottoprivilegiate. In questo modo si è iniziato a delineare un discorso di genere, ma anche di classe.

Le grandi rivendicazioni sono nate con la rivoluzione industriale, quindi i primi Paesi coinvolti sono stati Regno Unito, Francia e Stati Uniti. È proprio con la rivoluzione industriale che le donne sono state chiamate fuori dalla sfera privata, per entrare nel mercato sociale del lavoro extradomestico. Prima, nelle strutture patriarcali tradizionali, era la famiglia il centro di produzione, e la donna aveva una funzione precisa, nel privato, subordinata al potere pubblico maschile. Il lavoro, in particolare quello nelle fabbriche, è ciò che permesso alle donne di irrompere per la prima volta, fisicamente, nella sfera pubblica.

Così, è stato grazie alla seconda rivoluzione industriale di fine Ottocento che le donne hanno preso coscienza delle numerose disuguaglianze.  In questa prima fase del femminismo c’era una forte intersezione tra i movimenti operai e le rivendicazioni delle donne (negli Stati Uniti c’era un legame anche con il movimento anti-schiavista), perché entrambe le categorie erano accomunate da una condizione di subalternità. Proprio di questa associazione si è occupata Anna Kulišëva, italianizzata Kuliscioff, giornalista e rivoluzionaria, che ha anche contribuito a fondare il Partito Socialista Italiano. Per Kuliscioff la parità salariale (ovvero la stessa retribuzione per lavori di pari valore indipendentemente dal genere) e il miglioramento delle condizioni lavorative erano il punto di partenza per risolvere la “questione femminile”. Già nel 1866, durante il congresso della Seconda Internazionale, la maggior parte dei rappresentanti aveva condannato il diritto al lavoro per le donne. Si pensava che fosse un principio di degenerazione di razza e uno degli agenti di avvilimento morale, usato dai capitalisti per indebolire la fibra morale del popolo. Quindi, in sostanza, se da un lato le donne erano sfruttate nell’ambiente lavorativo della “destra”, la “sinistra” chiedeva che tornassero a essere sfruttate solo nell’ambiente domestico (perché, ricordiamocelo, il lavoro domestico è un lavoro che dovrebbe essere retribuito!). 

Nell’incipit di “Il monopolio dell’uomo”, Kuliscioff scrive: "Come mai isolare la questione della donna da tanti altri problemi sociali, che hanno tutti origine nell’ingiustizia, che hanno tutti per base il privilegio d’un sesso o d’una classe?" Anche qui si vede l’impellenza della questione lavorativa ed economica nelle rivendicazioni della prima ondata. Perché, riprendendo le parole di Muzzarelli nella premessa di Donne e lavoro: un’identità difficile, “il lavoro conferisce identità e consente modificazioni e ascese sociali modificando lo status individuale e famigliare”. Ma questa possibilità di relazioni (e realizzazione) è stata negata a lungo alle donne, perché interferiva con il loro ruolo di donne e madri. Quindi, recuperando la frase proverbiale attribuita a Charles Darwin, il lavoro nobilita l’uomo ma di certo non la donna. E questo è valido sicuramente per quegli anni, ma anche oggi, nel 2020 ancora non si è raggiunta la parità salariale, ma vige tuttora un gender pay gap: se un uomo guadagna un dollaro per un lavoro, per lo stesso lavoro una donna guadagna 81 centesimi (Report PayScale). 

 

Le suffragette e il diritto di voto

Una volta entrate nello spazio pubblico, le donne hanno avuto più forza anche per reclamare il diritto di prendere parte alle decisioni pubbliche, cioè il voto. Chi chiedeva il suffragio per le donne erano le suffragette. “Suffragette” in realtà sarebbe dispregiativo, uno di quei termini dell’odio che è stato poi reclamato con orgoglio da alcune donne inglesi appartenenti al movimento di emancipazione femminile nato per ottenere il diritto di voto per le donne. Negli Stati Uniti, invece, non c’è stata questa riappropriazione, e si è preferito usare suffragiste. Lì la prima donna a chiedere il diritto di voto è stata Margaret Brent, nel 1647, con esito negativo.  

All’inizio abbiamo parlato dei colori della WSPU, l’Unione sociale e politica delle donne. Era all’interno di questa realtà che le donne svolgevano una vera e propria militanza politica, sotto la guida della famiglia Pankhurst. L’associazione era stata fondata nel 1903 da Emmeline Pankhurst, dopo la morte di suo marito, con le sue due figlie Christabel e Sylvia. Lo slogan principale del gruppo era Deeds, not words!, cioè “Fatti, non parole”. E, difatti, le componenti del movimento organizzavano proteste, scioperi della fame e altre operazioni che contemplavano anche la violenza. Uno degli eventi che colpì maggiormente l’opinione pubblica è avvenuto nel 1913. La suffragetta Emily Davison si è lanciata, morendo, sotto il cavallo del re Giorgio V, durante una corsa all’ippodromo di Epsom. Questo episodio, come in realtà tutto il movimento britannico delle suffragette, è raccontato nel film Suffragette (2015), diretto da Sarah Gavron. Spoiler: il pieno suffragio nel Regno Unito si è ottenuto nel 1928. 

Il primo Paese a concedere il diritto di voto alle donne è stata la Nuova Zelanda, nel 1893. Invece, il riconoscimento più recente è del Regno dell’Arabia Saudita, nel 2011, anche se le donne non hanno potuto effettivamente votare fino al 2015. In Brunei è ancora oggi vietato il diritto di voto alle donne, ma anche agli uomini (dal 1962), tranne che per le elezioni locali. C’è ancora uno Stato in cui le donne non possono partecipare alle elezioni: lo Stato del Vaticano. In Italia il suffragio femminile era stato approvato nel 1920 alla Camera, ma il Senato non ha potuto confermarlo per lo scioglimento del Parlamento. Così il pieno suffragio è stato ottenuto nel 1945, al termine della seconda guerra mondiale, dopo una grande svalutazione della figura della donna durante il periodo fascista. In uno dei suoi discorsi, Mussolini aveva affermato: "la donna deve obbedire. La mia opinione della sua parte nello Stato è in opposizione ad ogni femminismo. Naturalmente non deve essere schiava, ma se io le concedessi il diritto elettorale mi si deriderebbe. Nel nostro Stato essa non deve contare." (Questa mappa ripercorre gli anni in cui le donne hanno ottenuto il diritto di voto in tutti i Paesi del mondo). 

 

Moglie e madre

Con il Fascismo, in Italia, la donna è stata nuovamente confinata nella vita domestica, sempre in una posizione secondaria rispetto all’uomo. Anche Ferdinando Loffredo, economista e filosofo del Regime, sosteneva apertamente che la donna dovesse tornare sotto la sudditanza assoluta dell’uomo - padre o marito. Sudditanza e quindi inferiorità spirituale, culturale, economica. In questi anni una moglie doveva eterna fedeltà al marito anche in caso di separazione (mentre non valeva il contrario). Sempre Loffredo in Politica della famiglia del 1938, scriveva: "il lavoro femminile [...] crea nel contempo due danni: la mascolinizzazione della donna e l’aumento della disoccupazione maschile. La donna che lavora si avvia alla sterilità; perde la fiducia dell’uomo; concorre sempre di più ad elevare il tenore di vita delle varie classi sociali; considera la maternità come un impedimento, un ostacolo, una catena; [...] concorre alla corruzione dei costumi; in sintesi, inquina la vita della stirpe." Le donne lavoratrici erano viste con sospetto, perché l’unico vero dovere che aveva la donna era “procreare per la Nazione”. 

Il controllo pubblico maschilista della vita privata delle donne, in Italia, raggiungeva il suo culmine con il delitto d’onore. Nel Codice Rocco, a cura del Ministro di grazia e giustizia Alfredo Rocco, l’articolo 587 prevedeva la riduzione di un terzo della pena per chiunque uccidesse la moglie, la figlia o la sorella per difendere il proprio onore o quello della famiglia. Questo significava che se una donna tradiva il marito e quest’ultimo, in un impeto d’ira, la uccideva, poteva appellarsi al delitto d’onore. Dalla stessa mentalità vigeva anche il matrimonio riparatore. In questo caso, dopo uno stupro, il reato di violenza carnale si estingueva se lo stupratore accettava di sposare la donna, salvando anche qui l’onore della famiglia. Il superamento di queste posizioni è ancora piuttosto recente. Le disposizioni sul delitto d’onore, come il matrimonio riparatore, sono state abrogate nel 1981, solo quarant’anni fa. La prima donna a ribellarsi contro il matrimonio riparatore è stata Franca Viola nel 1966, rifiutandosi di sposare il suo stupratore. E così, anche con lei, si è inaugurato un nuovo capitolo delle proteste femministe in Italia. Il primo movimento di emancipazione femminile ha lottato per eliminare le disuguaglianze de iure, e ha preparato la strada per le successive rivendicazioni per le discriminazioni de facto. 

Forse le differenze con il passato non sono poi così nette se ancora oggi si licenzia una vittima di revenge porn (o meglio di condivisione non consensuale di materiale intimo), mentre chi ha effettivamente commesso il reato non subisce nessun tipo di condanna, se non un anno di servizi socialmente utili.

 

Oltre ai testi e ai film già citati nell’articolo, per farsi un’idea del periodo e delle lotte consigliamo: 

  • La questione femminile, un documentario in dieci puntate andate in onda nel 1976 sul Programma Nazionale e ora disponibili su RaiPlay;
    Una stanza tutta per sé, Virginia Wolf (1929);
    Le ragazze del centralino, serie tv su Netflix (2017)
    La guerra di Miss Frimans, serie tv (2013)