Il fenomeno dell'hate-watching nei confronti di Emily in Paris
Come la serie Netflix è diventata una valvola di sfogo collettiva
03 Gennaio 2023
Emily in Paris è la serie che meglio rappresenta in questo decennio la descrizione di product placement, al pari di Sex and the City negli anni '90, con cui infatti condivide regista e per le prime due stagioni, costumista, ma non sicuramente la reputazione. La serie che segue le vicende della social media manager americana ha totalizzato un numero impressionante di watch su Netflix, ma non perchè sia particolarmente piaciuta al pubblico, ma per la pratica diffusasi tra chi odia la serie di Darren Starr, cioè l'hate-watching, che consiste nel guardare gli episodi soltanto per il gusto di criticarli. Così sui social si moltiplicano commenti come "ogni recensione negativa che leggo sulla terza stagione di Emily in Paris rende solo più probabile che io la guardi" mentre le views crescono. Il motivo scatenante di questo odio nei confronti della serie sarebbe in primis la poca credibilità di Emily e del coloratissimo guardaroba da 154 mila dollari, che nonostante il lavoro di archivio della nuova costumista della serie Marylin Fitoussi, continua a far storcere nasi perchè sembra troppo artificiale e poco organico come si direbbe nel gergo del marketing. Come ha scritto su The Conversation la professoressa di Film Studies al King’s College di Londra Catherine Wheatley, in fondo, "stiamo parlando di una donna che indossa un berretto alla francese e una camicetta ricamata con delle piccole torri Eiffel per il suo primo giorno di lavoro e ammette candidamente di non conoscere la lingua. Nelle migliori delle ipotesi, è imbarazzante. Nel peggiore dei casi è un’incarnazione vivente dell’imperialismo culturale statunitense".
La serie ha infatti attirato l'odio del pubblico con la prima stagione, dove la riproduzione dello stereotipo francese visto dagli occhi americani era palpabile nella trama e ha fatto inorridire non solo i francofoni, ma tutta la community di Netflix. Gli outfit eccentrici, studiati da Patricia Field, ex-costumista di SATC e fautrice della fama di Carrie Bradshaw, avevano l'obiettivo di caratterizzare i personaggi, ma il punto di vista distorto che pervade la serie non ha fatto altro che amplificare e dare colore in modo sbagliato ai diversi volti che popolano le vicende parigine. Ma nonostante attorno alla serie l'hate-watching sia molto sentito, il fenomeno esiste da molto tempo. Lo si vede ad ogni red carpet, dove chiunque si permette di giudicare e commentare sui social i look delle celebrities, non importa che sia un macellaio vegano o un fashion buyer. C’è un piacere quasi perverso nel divertirsi a prendere in giro con sarcasmo e un pizzico di cattiveria le assurdità di una serie tv che non si reputa valida a livello di contenuto e quindi non all’altezza dei propri gusti e standard. È questo il segreto dell’hate-watching, una forma di rito che passa dal piano solitario alla sfera collettiva grazie ai social con cui definire la propria identità annientando quella di qualcun altro. Così Emily Cooper, le sue sconclusionate avventure, il suo stile di vita sopra le righe e il guardaroba eccessivamente carico di dettagli da 145 mila euro l’anno si presta perfettamente per incanalare l’energia negativa che il pubblico accumula ogni giorno, diventando una valvola di sfogo virtuale per rilasciare un po’ di tensione, e distanziarsi da scelte outfit caricaturali.
Odiare Emily in Paris è un hobby che non fa male a nessuno, è al massimo una perdita di tempo estremamente divertente se condivisa, oltre che un'abitudine diventata ormai cool. Ormai discostarsi dalle scelte estetiche della serie, salvando solo gli outfit eleganti di Sylvie e in qualche eccezione Camille, sembra essere l'unico modo per determinare i propri gusti in fatto di moda, sottolineando sui social come sia impossibile che i costumi di Emily Cooper siano studiati da un team ma rimangano comunque così inverosimilmente ringarde (o kitsch per chi non ha mai visto la serie). In questa conversazione sono tantissimi gli utenti coinvolti, il che fa bene alla serie TV, perchè come scrisse Graham nella sua teoria del disaccordo nel 2008 "Quando si discute di un argomento e tutti sono d'accordo, spesso la conversazione si spegne rapidamente. Ma quando non si è d'accordo, ci si pone in opposizione a ciò che è stato detto e la discussione continua". In sintesi, per Emily in Paris, che se ne parli o meno, per il momento basta che se ne parli mentre gli streaming della serie, e dunque i guadagni e i cachet degli attori che ci recitano, crescono esponenzialmente.